Se esiste un «caso» Marc Monnet il festival AngelicA provvede a segnalarlo. Questo compositore francese sessantanovenne è conosciuto più per la direzione artistica della rassegna Printemps des Arts di Montecarlo che per le sue opere, pur numerose e ricche. Fa parte dell’ufficialità da un lato e da un altro sembra quasi un irregolare. Al Teatro San Leonardo, porta due brani che lo ritraggono abbastanza fedelmente e un po’ lo tradiscono. La sua natura di giocatore esce con evidenza ma con aspetti anche deteriori. Non gli è utile l’opacità degli interpreti (suoi fedeli, peraltro) forse raggelati dalla freddezza del pubblico.

Due brani. Meglio sarebbe dire: due suite. Del resto è questa la forma preferita di Monnet in parecchie sue partiture. E i titoli, dicono già molto sugli intenti descrittivi-giocosi dell’autore. Imaginary travel (1996) per pianoforte ed elettronica comprende al suo interno, Fiammable, Lovely Louise, Hot springs, così come Bibilolo (1997-2000) per sei tastiere midi, nata per sei percussioni elettroniche, annovera Pantalon, Pagliaccio, Chocolat, Chico, fou du roi.

In Imaginary travel il pianista Stéphanos Thomopoulos collabora con l’artefice del live electronics Thierry Coduys a spiegare che cosa intende Monnet per unione dei suoni acustici con quelli sintetici. Non due piani sonori che dialogano e forse si integrano ma i dispositivi elettronici che «deformano» il suono acustico di uno strumento, in questo caso del pianoforte. Subito si sentono effetti pianola oppure effetti come di vetri che si infrangono. In sostanza è un pianoforte preparato non con bulloni e chiodi tra le corde, tipo quello di John Cage, ma con modifiche di un apparato tecnologico ad alcuni singoli suoni.

La singolarità di Monnet sta nell’esporre episodi di scorrevoli divagazioni melodiche, qualche volta di sapore atonale (e sono i migliori), più spesso decisamente «in the tradition», tutti fatti con questi suoni deformati, graziosamente deformati. Si può definire bartokiano per via del gusto occasionale dell’ostinato ritmico modernista? Solo un po’. Il brano procede soprattutto attraverso accordi sul grave piuttosto solenni, persino cupi, alternati alle divagazioni melodiche ornamentali di cui si diceva. In questo si dovrebbe ritrovare la tensione verso il gioco, di Monnet. Ma lui semplicemente mette il divertente e il serioso uno dopo l’altro.

Bibilolo è un po’ magistrale e un po’ sconcertante. Si tratta di un lavoro del genere Album per la gioventù , come ne faceva Robert Schumann, per esempio, con Kinderszenen o Album für die Jugend. Qui, oltre a Thomopoulos, sono in scena Laetitia Grisi e Julien Martineau. Tutti alle tastiere midi. Probabile che la versione del lavoro sia adattata al numero degli esecutori: tre al posto di sei. Ludico e infantile, volutamente, Monnet. Squittii, carillon, sirene domestiche – spesso come nelle musiche per cartoni animati, mettiamo Tom&Jerry – si ascoltano in mezzo a un trotterellare ritmico di buonissima fattura.

Monnet è stato un compagno di studi di Mauricio Kagel. E dichiara di essersi convinto al suo fianco che l’opera d’arte è «mostruosamente impura». Giusto. In Kagel la teoria del gioco è stata produttiva di composizioni meravigliose ottenute con i più svariati, paradossali, provocatori, trasgressivi, sovversivi materiali e approcci. Nel suo collega solo di qualche «scherzo» che non sorprende mai.