Ripudiata dal voto, rimpiazzata da un apocalittico reality washingtoniano che fa sembrare House of Cards una commedia brillante di Howard Hawks, e ridicolizzata sui siti della alt-right, Hollywood ricorre alle sue armi più tradizionali in Allied. Nelle sale Usa alla vigilia del weekend del Ringraziamento, l’ultimo film di Robert Zemeckis (in Italia dal 12 gennaio) sorvola sull’indigeribile attualità politica (la National Public Radio, ieri mattina, dava consigli su come affrontare i diverbi post elettorali quando la famiglia è riunita di fronte al tacchino), paracadutando Brad Pitt in uno sterminato deserto rosa.

La sequenza, puro Zemeckis nella facilità con cui spiazza l’occhio (la vista dall’alto della sabbia che si avvicina, le curve misteriose del paesaggio, il silenzio, gli occhiali e il turbante del personaggio, alla Tin Tin) ti trasporta immediatamente in un altro mondo.

È il Marocco del 1942 – in altre parole Casablanca. Zemeckis regista, e Allied, sono molto più Hitchcock che Michael Curtiz, ma i fantasmi di Ilsa e Rick (insieme a quelli di Ingrid Bergman e Humphrey Bogart) stregano sicuramente la premessa di questo sontuoso melodramma, in cui il genio digitale di Zemeckis -esibito in maniera rivoluzionaria e vertiginosa in The Walk- viene usato in modo più soffuso, a favore dei movimenti di macchina e della texture ricchissima e magica degli sfondi (alla fotografia è il collaboratore abituale Don Burgess; Gary Freeman firma il production design).

Max (Brad Pitt) è un imprenditore minerario parigino che arriva a Casablanca per incontrare sua moglie Marianne (Marion Cotillard). Dietro al front elegante e mondano, grazie al quale questa coppia glamour e innamoratissima, si mimetizza nei salotti nordafricani della Francia di Vichy, zeppi di nazisti, lui è un ufficiale dell’aviazione canadese e lei un’agente della Resistenza francese.
Non si sono mai conosciuti prima, ma è stata loro affidata una missione pericolosissima, forse suicida, da portare a termine nel corso di una festa all’ambasciata di Francia che si terrà qualche giorno dopo. Forte di due star bellissime, di una città da Mille e una notte, e del plot nazi-spionistico, Zemeckis indugia con amore su questo periodo di attesa, sull’intimità forzata di Max e Marianne.

Due professionisti delle operazioni undercover, li vediamo scrutarsi guardinghi a vicenda, testarsi («sarei in grado di portare a termine la missione se dovessi usare forchetta e coltello», dice lei quando lui ha dei dubbi sulla sua dimestichezza con una mitraglietta; «riallacciati quei cazzo di bottoni della camicia», sibila lui quando lei mette alla prova il suo cool).

Il duetto/duello (paragonato a quello tra Pitt e Angelina Jolie in Mr. and Mrs. Smith più per ragioni di cronaca rosa che di attinenza) si gioca nei caffè, sui tetti di notte, nell’appartamento di lei, spiato da vicine di casa curiose, e nello spazio angusto di un’auto, in una splendida scena di sesso che esplode nel mezzo di (e come) una tempesta di sabbia. Per i curiosi: no, sullo schermo, la chemistry tra Pitt e Cotillard non ha nulla a che vedere con quella palbabilissima di Brangelina. La tensione è tutta un’altra. Ma, in questa storia, era ovvio che Max e Marianne si innamorassero.

E la seconda parte del film, dai backdrop esotici di Casablanca si sposta in quelli grigi e blu di una Londra bersagliata dalle incursioni della Lutwaffe. Sposati e con bambina, Max e Marianne vanno a vivere a Hampstead. Lui è al servizio del controspionaggio britannico, lei fa la mamma.

Nel firmamento hollywoodiano, (per registi come Michael Mann, Christopher Nolan, persino Woody Allen), Cotillard ha spesso incarnato un’aura di mistero, di fascino opaco, inafferrabile, vagamente sofferente. E qui (a differenza dell’uso più «francese», meno immateriale, che ne ha fatto James Gray in The Immigrant) quella è la sua parte. Così, anche se non usa più il rossetto fuoco che le accendeva il sorriso in Marocco, e le sete del suo guardaroba si sono adeguate ai colori e agli stili più tristi della piccola borghesia britannica, alla fine, Marianne potrebbe essere una dark lady. «Tua moglie è una spia tedesca», dice l’intelligence inglese a Max. E lui ha due giorni di tempo per provare che non è vero. Se non ci riesce dovrà ucciderla. Nonostante Allied sia un film all’insegna del fascino vintage, la sceneggiatura di Steve Knight (ha scritto La promessa dell’assassino di Cronenberg e scritto/diretto Locke) ha un sapore contemporaneo, in particolare nei dialoghi. La cosa funziona fino alla fine quando, invece del sentimentalismo perbenista che permea tanta della nostra cultura, ci mancano «le scelte» di Ilse e Rick, e quello stoicismo lucido e asciutto di cui era veramente capace la Hollywood classica.