Alla Sorbona, nell’ambito delle celebrazioni promosse in Francia per il Centenario della fotografia che ricorreva quell’anno, il 7 gennaio del 1939 Paul Valéry, delegato dell’Académie française, tiene un Discorso. L’esordio è di circostanza: «Invitata a partecipare a questa solenne cerimonia, che fu istituita per celebrare una invenzione tutta nazionale e una delle più ammirevoli del XIX secolo, l’Accademia francese non poteva mancare di farci sentire il suo omaggio ai grandi francesi che hanno avuto l’idea della fotografia, e che hanno saputo fissare per primi la somiglianza delle cose visibili per mezzo dell’azione stessa della luce che da esse emana».

E subito Valéry tocca questioni essenziali relative alla incidenza che la nuova tecnica d’una «cattura immediata delle forme mediante la lastra sensibile» ha rapidamente esercitato nell’ambito delle varie arti. Incidenza che Valéry si propone di considerare in rapporto all’«arte dello scrivere». Così si chiede se la fotografia non diminuisca lo spazio della scrittura che, nella sua capacità di descrivere, non può ottenere un grado di precisione paragonabile a quello che la fotografia realizza.

«L’esistenza della fotografia» riflette Valéry, «ci esorterebbe piuttosto a cessare di voler descrivere ciò che può, da sé, inscriversi». Inscrivere è operazione della geometria, la regola che accampa entro coordinate date una figura nella sua integrità (ad esempio: un poligono entro una circonferenza). Inscrivere è dunque formulare compiuta una figura che allora si mostra, per dir così, già descritta. «Bisogna riconoscere», continua Valéry «che infatti lo sviluppo di questo procedimento (costitutivo dell’immagine fotografica) e delle sue funzioni ha per conseguenza una sorta di evizione (éviction) progressiva della parola dall’immagine».

Evizione ossia una presa di possesso di ambiti fino ad ora dominio della parola e delle sue strumentazioni e che la fotografia viene celermente soppiantando: «Si deve dunque convenire che il bromuro prevale sull’inchiostro in tutti i casi in cui la presenza stessa delle cose visibili basti a sé stessa, parli da sola, senza l’intermediario di uno spirito interposto, vale a dire senza ricorso alle trasmissioni convenzionali di un linguaggio».

La fotografia si appropria per via di inscrizione della ‘presenza delle cose visibili’. Costituisce una replica precisa, esatta, non confutabile delle cose visibili, che sottrae alle inevitabili imprecisioni e sommarietà dipendenti dalle variazioni molteplici che caratterizzano il vedere dell’occhio umano. Di quanto si vede alla luce, la fotografia fissa la oggettiva concretezza di ogni menomo connotato che il suo obiettivo registri. Ne deriva alla letteratura una sorta di purificazione. Mezzi più adeguati ed efficaci assolvono a compiti che le erano attribuiti e che ora si rivelano non essenziali alla sua specificità d’arte.

La fotografia solleva la letteratura da un servizio di mera documentazione delle ‘cose visibili’, ausiliario e surrettizio, finora per via di scrittura svolto in mancanza di strumenti congrui e ben altrimenti affidabili che la parola. Avrebbe inciso così in profondità quel dispositivo che fissa «la somiglianza delle cose visibili per mezzo dell’azione stessa della luce che da esse emana», che le Belle Lettere potrebbero finalmente e con pieno agio procedere ora per le loro «autentiche vie, delle quali l’una si dirige verso la perfezione del discorso che costruisce o espone il pensiero astratto; mentre l’altra si avventura liberamente nella varietà di combinazioni e delle risonanze poetiche».

Ma le conseguenze indotte dalla pratica della fotografia nell’universo delle antiche forme, per aver riacceso l’ardua domanda sul concetto di oggettività, hanno coinvolto le consuete modalità della memoria e della identità. Argomenta infatti Valéry che l’«arte dello scrivere» non si confina entro l’aiuola delle Belle Lettere, ma «si estende agli immensi domini della storia e della filosofia, le cui frontiere indecise si disperdono talvolta dal versante dei territori organizzati della scienza e delle foreste della leggenda».