Quest’idea dell’alternanza scuola/lavoro, obbligatoria per tutta la scuola secondaria superiore, pezzo forte della legge 107, è cominciata nell’incertezza e sta finendo nel caos. Come ci riportano le cronache di questi ultimi giorni.

Ci ricordiamo bene Matteo Renzi che spiegava alla lavagna, come un ‘buon maestro’, la «buona scuola». E che con la bacchetta indicava il pezzo forte e qualificante della sua riforma, appunto l’alternanza scuola-lavoro: 200 ore nel triennio dei licei, 400 nel triennio di tecnici e professionali.

UNO STRUMENTO per rinnovare la scuola, con un’immersione nel mondo del lavoro, per formare al «senso di iniziativa e di imprenditorialità». Le cose devono cambiare: la scuola si deve aprire al futuro, alla capacità del fare, all’imparare «facendo».

Non solo, nell’epopea renziana l’alternanza è anche trampolino «verso una professione», nella speranza che gli stage possano permettere di abbassare quel 46% di disoccupazione giovanile, tarlo e remora per lo sviluppo del Paese.

Mai viste e sentite tante sciocchezze tutte insieme.

Eppure la scuola, quella buona davvero, si è rimboccata le maniche e ha avviato percorsi, progetti, a volte anche pregevoli, sempre tra mille difficoltà.

MA IL PROBLEMA sostanziale è che un’attività resa obbligatoria per tutti gli studenti per legge, in assenza di qualsiasi strumento offerto alle scuole per la sua organizzazione, finisce con il produrre approssimazione, spreco, confusione, se non peggio.

Un monitoraggio dell’Unione degli studenti sulle esperienze di 15.000 studentesse e studenti ci dice che oltre la metà degli intervistati dichiara di partecipare a percorsi non inerenti ai propri studi e che quattro studenti su dieci ammettono di non essere messi nelle condizioni di apprendere, nel percorso di alternanza.

E infatti, al di là degli slogan già ricordati, qual è il senso vero di questa operazione? Si impara un lavoro, si conosce un ambiente di lavoro, si riflette su una filosofia e un’organizzazione d’impresa? Da McDonald, da Zara?

(Sono, infatti, due grandi gruppi che hanno fatto un accordo con il Ministero.)

La scuola è stata lanciata in questa avventura, senza che venisse fatta chiarezza su obiettivi e strumenti. Senza predisporre una struttura organizzativa e normativa che renda possibili i percorsi e ne garantisca utilità ed efficacia. Alcuni esempi? La maggior parte dei luoghi di lavoro non è attrezzata per accogliere studentesse e studenti e non è stata ancora definita la Carta dei diritti e doveri dei soggetti in alternanza. E per di più i percorsi di alternanza spesso comportano costi per studenti e famiglie.

Nel 2016, il primo anno dell’applicazione della riforma, ha partecipato all’esperienza di alternanza uno studente su tre, il 60% nei professionali, il 20% nei licei.
In queste condizioni di assoluta difficoltà organizzativa non c’è da stupirsi se molte scuole finiscono col far svolgere l’alternanza (in realtà stage) nel periodo estivo, magari a piccoli gruppi che vanno a fare i camerieri in Italia o all’estero, per coprire le ore e poter poi fare gli esami finali. Ma con quali tutele e con quale efficacia formativa? Per non parlare di episodi vergognosi recentemente accaduti e denunciati, dalle molestie alle studentesse, al ricorso a studenti in alternanza per lavori, che non rientrano in nessun piano formativo, e che dovrebbero invece essere affidati a lavoratori regolarmente retribuiti.

E quante ore sono state sottratte all’apprendimento con questo modo di procedere?

L’ALTERNANZA SCUOLA lavoro non è una novità, era prevista già dalla legge 53 del 2003, meglio conosciuta come legge Moratti. Ma la obbligatorietà del percorso, imposta dalla «buona scuola», ha portato molte scuole a un’applicazione forzata della legge stessa per timore di non svolgere le ore previste, necessarie per sostenere gli esami finali, e a doversi inventare percorsi e soluzioni improvvisate.

Il rapporto scuola-mondo del lavoro è una cosa seria, se non è un obbligo ma un’opportunità, se rappresenta uno scambio di sapere e di esperienza, e se davvero riesce a far crescere e consolidare processi di apprendimento e di crescita, umana e civile.

Con un po’ di umiltà bisognerebbe davvero fermarsi per un bilancio di quel che sta accadendo, nel bene e nel male. E dovrebbe essere soprattutto il Ministero a farlo, smettendo di difendere l’indifendibile.