Gli effetti del coronavirus avranno conseguenze decisive sullo sport di base, quello che comunemente definiamo popolare e che in maniera più specifica il Comitato internazionale olimpico (Cio) chiama lo «sport per tutti». Esisteranno ancora politiche di welfare riguardo allo sport, portate avanti dalle istituzioni governative europee, oppure a seguito delle ripercussioni economiche dovute alla pandemia di Covid-19, i diversi modelli sportivi che caratterizzano estese aree geografiche subiranno una battuta di arresto? Fin da ora sembra certo che a pagare le conseguenze saranno le fasce sociali più deboli, che saranno private del diritto della cittadinanza allo sport. Un libro, Sport, Welfare and Social Policy in the European Union ( edizioni Ruotledge) scritto dai tre sociologi italiani Nicola Porro, Stefano Martinelli e Alberto Testa, affronta il tema su scala europea. Ne parliamo con uno degli autori, Nicola Porro, docente universitario e sociologo dello sport di fama internazionale, in passato innovatore presidente dell’Uisp, la più grande organizzazione di sport per tutti in Italia.

Perché un libro su welfare e sport in Europa?
La ricerca ha impegnato studiosi di nove Paesi in un’indagine comparativa. Il diritto allo sport è spesso visto come indicatore di maturità civile di un Paese. Lo sport è ritenuto un aspetto fondamentale dei diritti dei cittadini, che vanno dal diritto alla salute al diritto all’istruzione fino all’integrazione sociale. Il rapporto tra la partecipazione all’attività sportiva e fisica e le politiche del welfare in tutta Europa è determinato dal successo delle campagne per la promozione dello sport e dipende dall’esistenza di politiche di welfare mirate, promosse dagli stati europei. La nostra ricerca, per la prima volta in Europa esplora le variazioni, le differenze culturali tra i vari modelli, gli organismi della governance delle politiche sportive nei vari paesi dell’Ue.

L’indagine approfondisce la funzione delle istituzioni sovranazionali, come quelle europee, delle reti del volontariato sportivo, focalizza le problematiche chiave che in questo contesto storico attraversano le società europee, quali la migrazione, l’austerità finanziaria, la Brexit e il modo in cui si rapportano alla politica sportiva. La ricerca è stata condotta prima della recente uscita dell’Inghilterra dall’Ue e anche prima della pandemia dovuta al coronavirus, che cambierà il quadro attuale dello sport popolare.

Come avete proceduto?
Inizialmente abbiamo rilevato una discrasia tra i dati forniti dai diversi organismi sportivi istituzionali, spesso accompagnati da abbondante retorica, e la realtà dettata dal numero di medaglie e dal tessuto sportivo associativo di base dei vari modelli di sport in Europa. Perciò abbiamo deciso di condurre una ricerca autonoma, confrontando i dati sia sul piano quantitativo che qualitativo e cercato di interpretarli con le categorie della sociologia.

Che cosa avete rilevato?
Nei paesi scandinavi prevale la politica dei diritti garantiti a tutti. Il welfare ha un riflesso positivo anche sullo sport di base, lo sport di cittadinanza è esteso a tutte le fasce sociali. In quei Paesi il modello sportivo prevede una sorta di Coni 1 (il Coni è il Comitato olimpico nazionale italiano, massimo organo dirigenziale per lo sport in Italia, ndr) per lo sport agonistico di alto livello e un Coni 2 del tutto indipendente dal primo, che si occupa dello sport popolare. Ci sono organismi governativi completamente autonomi che si occupano di promozione dello sport per tutti. Lo sport di cittadinanza è unanimemente riconosciuto e favorito attraverso strutture pubbliche.
Nei Paesi del centro Europa, che ha come area di riferimento la Francia, la Germania e l’Austria, prevale un modello di sport con un forte finanziamento pubblico, le politiche sportive prevedono la presenza dello Stato.

Nei Paesi del sud?
Il modello sportivo prevalente nei Paesi del sud dell’Europa, con particolare riferimento all’Italia, alla Spagna, alla Grecia, al Portogallo e a un’area dei Paesi dell’Est, dove abbiamo rilevato residui di statalismo nello sport di base riflesso dei vecchi regimi, prevede che le risorse economiche siano molto sbilanciate a favore dello sport agonistico, soprattutto negli anni olimpici. In questa vasta area europea, lo sport popolare conta molto sull’associazionismo. L’Italia presenta il modello più all’avanguardia su questo fronte, basato sul volontariato. Nei Paesi del sud Europa, vi è poco sostegno finanziario dello Stato alle associazioni sportive. In Italia, la recente costituzione di Sport e Salute, che dovrebbe destinare risorse allo sport di base, opera da poco tempo per analizzare il problema da un punto di vista della nostra ricerca.
Nel nostro Paese, le scarse risorse finanziarie all’associazionismo sportivo sono dovute anche al fatto che lo Stato destina aiuti economici a sostegno di una politica familistica, come gli assegni per i figli, retaggio di una cultura cattolica. In Spagna stanno peggio di noi, anche se la Catalogna ha un modello autonomo, l’Istituto per l’Educazione fisica di Barcellona dà conto all’autonomia regionale e non alle autorità governative nazionali. C’è un quarto modello sportivo per lo sport popolare, costituito dalla Gran Bretagna, che è un modello liberista, basato sui contributi degli sponsor, delle assicurazioni, dei fondi privati.

Le conseguenze del coronavirus, avranno un riflesso sul rapporto tra il welfare e lo sport?
Il coronavirus ha colpito la socialità, ci vorrà molto tempo prima che i campi sportivi tornino a essere frequentati e utilizzati. La riduzione delle risorse finanziarie, colpirà in particolare le politiche di inclusione sociale degli immigrati attraverso lo sport, le fasce sociali più deboli e le istituzioni come la scuola. L’auspicio è che un vento positivo influenzi i governanti dei Paesi dell’Ue, e che dopo il coronavirus arrivi l’occasione per ridisegnare un nuovo modello di sport rispetto a quello attuale, più equilibrato e più attento al sociale.