L’ultima produzione è Una Squadra, docuserie sull’Italia che vinse la Coppa Davis in Cile nel 1976, presentata alla 39esima edizione del Torino Film Festival. Panatta, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli, la squadra più forte del mondo per almeno tre anni. Poi a breve su Amazon Prime farà il suo esordio anche All or Nothing, episodi sulla Juventus della passata stagione con Andrea Pirlo in panchina, due trofei, Cristiano Ronaldo e la fine del ciclo degli scudetti bianconeri. E qualche giorno prima ecco Will Smith che annuncia il suo nuovo ruolo, nei panni di papà Richard Williams, il controverso genitore che ha creato dal nulla, con metodi spesso poco ortodossi, le sorelle Venus e Serena, dominatrici del tennis mondiale negli ultimi 15 anni partendo da un ghetto di Los Angeles, ore e ore a correre e colpire la pallina un campetto lastricato da pezzi di vetro.

Film, appunto serie tv, biopic: la vita dei fuoriclasse dello sport è ormai ripercorsa, analizzata, ripassata al dettaglio. Alla continua ricerca di elementi sconosciuti al pubblico. Le piattaforme, ovviamente, non mancano, anzi. Netflix, Amazon Prime, Sky. Il trend è in continua ascesa. Sulla resa, la discussione è aperta.

L’innesco alla corsa al racconto di un campione, di una squadra che ha scritto più o meno la storia dello sport, è stato The Last Dance, un pacchetto di puntate sull’ultimo anno della dinastia dei Chicago Bulls, sei titoli Nba vinti negli anni Novanta. Una produzione quasi interamente concentrata su Michael Jordan, il giocatore di basket più iconico che sia mai comparso su un parquet. Invidie e vittorie, eccessi, la competitività spietata di Jordan, l’influenza dell’allenatore dei Bulls, Phil Jackson, seguace della dottrina Zen, le stravaganze notturne di Dennis Rodman. Una confezione cinematografica di estrema qualità intorno ai Bulls che davvero hanno segnato un’epoca nello sport americano e mondiale. La serie realizzata dal network tv americano Espn e mandata in onda su Netflix ha avuto un successo clamoroso: 24 milioni di telespettatori a livello mondiale solo nelle prime quattro settimane di permanenza sulla piattaforma, escludendo i dati registrati negli Stati Uniti.

The Last Dance ha aperto la strada al genere, dopo oltre un anno la serie genera ancora commenti, discussioni, polemiche tra gli stessi giocatori dei Bulls. In precedenza i film nonché la serie televisive sullo sport non è che avesse prodotto chissà quali capolavori, con l’eccezione di Toro Scatenato-Robert De Niro nei guantoni del pugile Jake La Motta, oppure il Maradona by Kusturica, il geniale e creativo documentario del regista bosniaco che fece impazzire Cannes nel 2008. E sempre tra i doc è rimasto negli occhi il fantastico Once Brothers, il racconto di Espn dell’amicizia tra Vlade Divac (serbo) e Drazen Petrovic (croato), due amici per la pelle poi divisi dalla guerra civile jugoslava, un rapporto perduto sino alla morte di Petrovic, neppure 30enne, per un incidente stradale, nel 1993.

Non hanno scaldato gli animi neppure pellicole impegnative come Invictus, ispirato alla poesia che Nelson Mandela utilizzava per alleviare gli anni della sua prigionia durante l’apertheid e centrato sulla vittoria del Sudafrica nella Coppa del mondo di rugby. E così Will Smith in Alì, film sulla vita di Cassius Clay-Muhammad Alì, ovvero il pugile più famoso mai esistito e neppure Race, su Jesse Owens, il nero più veloce d’America, quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino 1936, cui Hitler non volle stringere la mano. Altri lavori cinematografici come Ogni Maledetta Domenica (football, con il celebre monologo finale di Al Pacino), oppure The Million Dollar Baby di Clint Eastwood o ancora Fuga per la Vittoria restano di assoluto valore ma non sono concentrate su personaggi che hanno inciso nella vita reale.

Da The Last Dance in poi, non c’è mese senza l’inizio di una serie o un film su un personaggio dello sport. Ma nessuna ha raggiunto il livello della produzione di Espn. Forse perché sul genere gli americani sono inarrivabili, forse anche per i mezzi economici e tecnologici a disposizione. Soprattutto perché resta la difficoltà di tradurre in una fiction, in un film, il sentiment che produce una partita di calcio, di basket, oppure di rendere la grandezza di un atleta senza cadere in ripetuti cliché, specie se si tratta di miti letterari. Come Jordan, come Diego Maradona. In questi giorni su Amazon Prime ci sono quasi tutte le puntate della serie sul Diez, lanciata pochi giorni prima del compleanno, il primo post mortem, del fenomeno argentino, il 30 ottobre. Maradona: Sogno Benedetto, l’incredibile, controversa esistenza del Pibe de Oro, dalle baracche di Villa Fiorito sino all’arrivo a Napoli, tra magie, ascese e cadute, fino al malore che mise a repentaglio la sua vita, nel 2000 in Uruguay, dopo l’abuso di sostanze stupefacenti. Una narrazione costruita (nella prima parte) sullo sfondo del regime di Videla in Argentina.

La serie è stata parecchio discussa, ci sono errori forse voluti nella ricostruzione delle vicende maradoniane e c’è la difficoltà a rendere al meglio la sensibilità di un campione così complesso, dalle sfaccettature infinite. E prima della serie su Maradona, non ha convinto del tutto neppure la serie su Totti andata in onda su Sky, Speravo de morì prima, dove pure il tono è disincantato nella costruzione di un Totti leggero, campione timido e riservato. Ma anche Il Divin Codino, il film (su Netflix) su Roberto Baggio forse presenta lo stesso difetto di quello dedicato a Totti, ovvero molta attenzione sul personaggio, meno sulla sua storia su un campo di gioco.

Nel frattempo, la produzione sugli sportivi non si ferma: al cinema c’è Zlatan, la vita in celluloide di Ibrahimovic. Una produzione svedese-olandese, anche in questo caso con particolare attenzione sulla vita privata dell’atleta, in questo caso Ibra ragazzino segnato dalla complicata vita familiare nel quartiere multietnico alla periferia di Malmoe e poi 20enne ribelle ad Amsterdam.