L’ultimo ostacolo sulla strada del nuovo Dpcm e delle restrizioni in arrivo per contrastare l’avanzata del Covid-19 è l’incontro tra governo e Regioni, subito prima del vertice dei capidelegazione che dovrebbe licenziare il testo: Giuseppe Conte, il ministro per gli affari regionali Boccia e il sottosegretario Fraccaro a palazzo Chigi, gli altri in videoconferenza. La trattativa frena la corsa del premier che da Taranto e poi di nuovo nel pomeriggio, aveva annunciato il provvedimento per ieri sera. Le Regioni chiedono 24 ore per «ragionarci», poi si riuniscono a tarda sera per dare il loro parere. Nulla da obiettare sulla nuova proposta del governo, lo stop alle gite scolastiche. Le Regioni insistono però sulla didattica a distanza per le ultime due classi delle medie superiori, individuata come soluzione al sovraffollamento dei trasporti locali. La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, si sa, è contraria. Il premier rinvia la decisione.

IL VERO PROBLEMA è l’impatto delle nuove misure su alcuni settori, in particolare su quello già più colpito: ristoranti, bar, pub, i locali della «movida». La ratio del provvedimento, ispirata dal capo dello Stato, è limitare al massimo l’impatto effettivo sulle attività produttive ed economiche potenziando in compenso il messaggio d’allarme. Obiettivo: coinvolgere i cittadini come nella scorsa primavera, ridestare un senso di responsabilità collettivo assopito in estate nella convinzione che il virus fosse già storia di ieri. Le mascherine per strada sempre, l’invito pressante a usarle anche in casa quando si ricevono ospiti, il «consiglio» di non andare oltre le sei persone nelle riunioni in abitazioni private (che ha sostituito la fantasia a dir poco inquietante di affidarsi alla prescrizione, con tanto di invito alla delazione da parte dei vicini di casa e di possibile irruzione senza mandato della polizia) servono a questo.

MA PER LA RISTORAZIONE e i locali notturni l’impatto è invece concretissimo. Il governo propone di chiudere tutto alle 24, le Regioni puntano i piedi, spunta come mediazione possibile l’idea di affidare alle Regioni stesse la scelta sul prolungare di un’ora. Il blocco della vendita di alcolici da asporto alle 21 sembra eccessivo ai governi locali come anche, anzi soprattutto, il divieto di sostare di fronte a bar o ristoranti e di consumare per strada anche senza tavolini sempre dalle 21. Per molti esercizi si tratta di un colpo micidiale. Il governatore lombardo Attilio Fontana è il più deciso nel chiedere che la restrizione sia accompagnata subito da cospicui stanziamenti a ristoro della categoria. Qui però il governo insiste, supportato dai dati: quelli italiani ma soprattutto quelli del Regno unito, dove i ricoveri in ospedale hanno superato quelli della primavera.

Sin qui la preoccupazione principale era stata quella di evitare nuove chiusure e più che mai un fatale nuovo lockdown generale. «È escluso. Tutt’al più ci saranno piccoli lockdown locali», conferma Conte e sarebbe già un grosso guaio. Ora però si è affacciato uno spettro ancora più temibile, quello della saturazione degli ospedali. Per ora in Italia è lontanissimo ma la paura che le parti si siano invertite rispetto al passato, quando l’Italia precedeva di due settimane il resto d’Europa, è fortissima. Viene dunque stabilito il divieto dello sport da contatto amatoriale e confermato il limite del 10% di presenza negli stadi, comunque senza superare mai i mille spettatori. Le Regioni protestano, il tetto si alza al 15%. Oltre questa percentuale il governo non intende arrivare.

NESSUN PROBLEMA invece per quanto riguarda la modifica dei protocolli su profilassi e prevenzione. I positivi asintomatici usciranno dalla quarantena dopo 10 giorni e un solo test negativo invece degli attuali due. Fine quarantena dopo 10 giorni, di cui almeno tre asintomatici, e un solo test molecolare per i positivi con sintomi. In caso di contatti stretti con un positivo l’isolamento resterà invece di 14 giorni, che scendono a 10 se al decimo giorno si effettua un test negativo.
Più confuso il quadro per i tamponi. L’80% dei medici di base non è in grado di effettuare il test rapido. Le strutture private accreditate non sono ancora pronte. Le previsioni più rosee prevedono di arrivare dagli attuali 130mila tamponi al giorno a 200mila. I disagi su questo fronte, si attenueranno. Non si risolveranno.