Il coma, quasi irreversibile, dei colloqui di «Ginevra 2» apre le porte all’ulteriore escalation della guerra civile siriana. Il segnale inequivocabile è la ripresa dello scambio di accuse tra Stati Uniti e Russia. Non devono ingannare le tregue umanitarie, simili a quella (brevemente) osservata ad Homs nei giorni scorsi, che le truppe governative e quelle ribelli hanno siglato in diversi sobborghi di Damasco su pressione delle popolazioni locali stremate da combattimenti e bombardamenti. Il fallimento dei negoziati in Svizzera tra governo e opposizione può soltanto aggravare il conflitto armato. Aiutate dalla supremazia aerea, coadiuvate da consiglieri iraniani, sostenute da migliaia di guerriglieri di Hezbollah, le forze governative mantengono l’iniziativa sul terreno, specie nella zona centro-occidentale del Paese. Le milizie ribelli e jihadiste resistono ma sono incapaci di ribaltare il quadro militare nonostante gli ingenti rifornimenti di armi che ricevono attraverso i confini con la Giordania e la Turchia. Per questo le forze anti-Damasco sono in fase di riorganizzazione sotto le direttive del più grande e generoso dei loro sponsor, l’Arabia saudita.

È all’interno di questa riorganizzazione, più politica che militare, che il Consiglio Militare Supremo dell’Esercito siriano libero (Esl, braccio armato della Coalizione Nazionale dell’opposizione) ha mandato a casa il «capo di stato maggiore», Salim Idriss, accusato di «inefficienza», e lo ha sostituito con il generale Abdallah Bashir, capo della «brigata» Quneitra schierata nel sud della Siria. Idriss paga la sua vicinanza al Qatar e alla Turchia che a fine 2012 avevano imposto la sua nomina a comandante supremo. Ora dettano legge i sauditi. Riyadh, che a fine 2013 era riuscita a mettere insieme sei fazioni jihadiste siriane sotto l’ombrello del «Fronte islamico», conquista anche il controllo anche l’Els. Senza dimenticare che lo scorso luglio i sauditi avevano messo un loro uomo, Ahmad Assi Jarba, a capo della Coalizione Nazionale. Sono fuori controllo, in apparenza, i qaedisti del Fronte al Nusra e Lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, con i quali la monarchia saudita (ha promesso agli americani) non vuole collaborare apertamente.

Il potente principe Bandar bin Sultan, capo dell’intelligence saudita ed ex ambasciatore saudita negli Usa, ha ricevuto l’incarico di fermare o limitare l’influenza dell’Iran nella regione, a cominciare da Siria e Libano. Secondo alcune fonti locali, esisterebbe un «piano Bandar», in tre elementi: 1) istituzione nell’Esercito libero siriano di brigate, battaglioni e unità speciali ribelli con al comando uomini fedeli a Riyadh; 2) manipolazione di gruppi affiliati di ad al Qaeda (Brigate Abdullah Azzam, Fronte an Nusra) da usare a proprio vantaggio, anche in altri scenari (Libano), per colpire gli sciiti e gli alleati del regime di Bashar Assad; 3) formazione di centri comando – uno a Irbid , in Giordania, e l’altro a Taif, in Arabia Saudita – per coordinare le azioni militari e trasferite i fondi e le armi per i ribelli in Siria. In tandem con il «Piano Bandar» , c’è la collaborazione dei religiosi wahabiti e salafiti e dei donatori privati (non solo sauditi, anche kuwaitani) a sostegno della lotta contro quella che regnanti sunniti della regione chiamano la «Mezza Luna sciita».

Il Piano Bandar ha conseguito risultati parziali sui campi di battaglia in Siria – anche per la spiccata rivalità tra gruppi jihadisti e ribelli – ma ha portato lo scompiglio a casa degli avversari. Agguerrite formazioni jihadiste sono riapparse nell’Iraq (a guida sciita) dove hanno strappato il controllo di diversi centri abitati all’esercito governativo. Attentati a ripetizione a sud Beirut stanno mettendo alla prova i sistemi di sicurezza di Hezbollah.