Le parole somigliano un po’ ai fiori. E non dico per l’uso stravagante che se ne faceva nell’Ottocento, quando ciascuno di essi esprimeva una sfumatura emotiva, ed esistevano libri appositi che ne illustravano la grammatica come Le langage des fleurs di Charlotte de La Tour, bensì perché le une come gli altri capita alle volte che perdano in tutto o in parte il loro aroma originario non appena li si travasi. Così forse nell’italiano spirituale svapora molta della specifica fragranza del termine Geist di Über das Geistige in der Kunst, il più noto fra gli scritti di Kandinskij, come sottolinea giustamente Paolo Bolpagni nel catalogo della mostra Kandinskij L’opera 1900-1940 (fino al 26 giugno a Rovigo, Palazzo Roverella), di cui è curatore assieme a Evgenij Petrova.
Gli anacoreti facevano esperienza della spiritualità in vasti deserti, dove l’alidore della terra suggeriva al cervello sconvolto un brulichio d’assillanti visioni, Kandinskij la colse, invece, nelle uliginose pianure della Vologda sulle quali viveva ancora l’antica popolazione dei Zyriani: «Ricordo– si legge nello scritto Sguardi sul passato, pubblicato in chiusa al catalogo – quando entrai per la prima volta nell’ibza e rimasi immobile dinanzi all’immagine inattesa. Il tavolo, le panche, la stufa, che nelle case dei contadini russi è imponente e grande, e gli armadi e ogni oggetto erano decorati con grandiosi immagini multicolori dipinte (…). In queste case meravigliose ho vissuto un’esperienza che non si è ripetuta da allora. Esse mi insegnarono a muovermi nel quadro, a vivere in esso».
Vediamo nella prima sala il genere d’oggetti che il pittore aveva alacremente riprodotto nei suoi taccuini: sono stoffe, cordoni e cinture vivacemente dipinti, un cavallo a dondolo proveniente dal Distretto di Kirillovo e un cestino, a figure e fiorami esuberanti, grandi come fragole, della Dvina settentrionale, poi, soprattutto, delle conocchie intagliate e dipinte delle provincie di Archangel’sk e Vologda. Kandinskij li portò con sé a Monaco di Baviera, assieme a un suo personale florilegio d’incisioni e di litografie colorate del quale possiamo farci un’idea osservandone alcuni esempi provenienti dal Museo di San Pietroburgo come Fila, mia tessitrice (1892) o Alkónost, l’uccello del Paradiso (primo terzo dell’Ottocento).
Non v’è dubbio che Kandinskij stesse sperimentando qualcosa d’assai simile a quel che in Occidente stava avvenendo con la riscoperta dei primitivi e del cristianesimo mistico e aurorale, ma il genere d’esperienza che il russo fece della spiritualità popolare in quelle lontane regioni a nord di Mosca dovette avere qualcosa di più tumultuoso e meno mediato di quella d’artisti come Denis o come il Gauguin di Pont-Aven. Egli ammirò la violenza di quei colori che sembrava trascendere la materialità delle cose, trovandoli «dipinti con tale forza che in essi l’oggetto si dissolveva».
Fra i primi esiti di queste riflessioni vi furono i meravigliosi paesaggi monacensi, che provengono dai musei pietroburghesi: il catalogo restituisce solo debolmente l’opulenza degli aranci della piccola tavola Autunno, il madreperlaceo del cielo di Fiume d’estate, l’oro e l’argento che s’insinuano un po’ dovunque in questi oli, dipinti tutti fra il 1901 e il 1903, e che richiamano, nei loro echi preziosi, il tinnio sacro delle antiche icone. Meglio rese sono invece le xilografie (realizzate nel 1907 ma pubblicate nel 1909) in cui un materiale folklorico s’arricchisce di motivi fiabeschi da ballata romantica, ma sempre con un non so che di flessuoso e d’aereo anche laddove la composizione sembrerebbe ubbidire a una superiore ragione geometrica. In Gli uccelli, La chiesa, I cavalieri, Le donne nei boschi «è come se Kandinskij rimanesse per sempre il bambino rapito dai racconti della zia sulle amazzoni che vagano a cavallo tra le montagne, sui giovani innamorati di campagna, sui cavalieri che galoppano all’orizzonte», e attingesse a una sorgente leggendaria ancora più intima e profonda di quella dalla quale Rimskij-Korsakov aveva ricavato le sue composizioni orchestrali.
C’è qualcosa di questo stupore infantile non soltanto, com’era da aspettarsi, nei lavori dei primi anni dieci (Il cavaliere, Destino, San Giorgio) ma anche in cose più tarde che possiamo ammirare in una delle sale più inaspettate: si tratta di alcuni oli su vetro dipinti nel 1918 nei quali quei medesimi elementi sono trattati in una pasta più soffice, più «viennese».
La visione infantile era, d’altra parte, la più naturalmente incline a recepire la risonanza spirituale delle forme e dei colori che doveva essere il fine supremo dell’artista. Da codesta intenzione di parlare all’anima furono mosse le innovazioni in senso astratto che vediamo nelle successive sale: Crepuscolo, 1917, Due ovali, 1919, Sul bianco I, 1920. Ma in ciò che il pittore andava contemporaneamente scrivendo sull’effetto emotivo del colore non v’era in sé nulla di nuovo. Considerazioni simili si trovavano già nei Remarques sur l’art de peinture di de Piles e nell’Essai sur les signes inconditionnels di de Superville prima ancora che nella celebre teoria goethiana dei colori. Kandinskij, però, dette un fondamento spirituale ad affermazioni che, fino a quel momento, s’erano basate su presupposti di tipo sensista: «il colore – così soleva pensare – è il tasto, l’occhio il martello, l’anima il pianoforte dalle molte corde. L’artista è la mano che toccando questo o quel tasto, mette opportunamente in vibrazione l’anima umana».
Come Dostoevskij, che aveva infuso la propria tensione spirituale in schemi preesistenti nel romanzo europeo dell’Ottocento, così Kandinskij fece proprio un dibattito antico ma per trasfondervi tutta la vastità dell’anima slava. Dopo essere passata dal periodo del Bauhaus, la mostra si chiude con l’album Klänge, in cui «l’artista rimugina sulle proprie intuizioni spirituali rispetto agli avvenimenti della sua vita (…) il tema centrale è la Resurrezione. L’immagine dominante è quella della Rivelazione giovannea»: ma non è più ormai la parola tedesca Geist ad aleggiare, bensì quella del profondo spirito russo Ort, Anima.