I primi giorni dell’anno potrebbero portare alla Libia l’apertura di uno spiraglio di pacificazione e forse in prospettiva l’uscita dal caos seguito alla guerra del 2011 e alla caduta del Colonnello Gheddafi. La svolta sarebbe il portato dell’entrata in scena di un nuovo attore: la diplomazia felpata della vicina Algeria, sostenuta dalla Lega araba.

È infatti ad Algeri che il prossimo 4 gennaio si dovrebbe tenere il primo tavolo negoziale con il premier del governo di Tripoli, Fayez Serraj, sostenuto dall’Onu ma ancora orbo del fondamentale appoggio del parlamento legittimamente eletto di Tobruk da un lato, e, dall’altro lato del tavolo, il generale «ribelle» Khalifa Haftar, ex fedelissimo di Gheddafi fuggito negli Usa dopo il disastro in Ciad, quindi «feldmaresciallo» della Cirenaica, che nell’ultimo anno, grazie all’appoggio dell’Egitto e sempre più anche della Russia, si sta imponendo come nuovo uomo forte del paese.

L’Algeria, con la sua giunta militare cementata al potere dietro l’ombra dell’anziano presidente Abdelaziz Bouteflika, che nessuno vede in pubblico da anni ma ancora firma le leggi di bilancio, è un paese dove forti sono gli interessi petroliferi italiani, più ancora che in Libia. E dove la fragile stabilità del potere si basa sul controllo delle frontiere. Secondo i media locali proprio ad Algeri nei giorni scorsi, nel quadro del primo anniversario dell’accordo di Skhirat in Marocco dal quale ha preso vita il governo di accordo nazionale libico attualmente guidato da Serraj, è stato invitato il suo principale detrattore: il generale Haftar. Per l’occasione i funzionari algerini gli avrebbero richiesto di appendere la divisa militare e presentarsi in abiti civili: segnale di una volontà di pacificazione oltre che di accettazione di Algeri come territorio neutrale.

Haftar con il suo «Esercito libico» – la milizia chiamata in sigla Lna – è reduce da successi militari rilevanti. Dopo la recente liberazione di Sirte dai miliziani neri dell’Isis, costata alla milizia di Misurata, principale alleato del governo di Tripoli, oltre 700 morti, presa a cui il «generalissimo» non ha partecipato, è lui però che ha esteso il suo controllo nella zona Sud della Libia.

A inizio dicembre ha respinto un attacco di milizie islamiste ed ex guardie petrolifere che volevano rientrare in possesso dei terminal sulla costa, ha perciò mantenuto il controllo dei porti di Sidra, Ras Lanuf, Brega e Zueitina.

E avanzando fino a 65 chilometri da Sirte ha istituito posti di blocco per evitare infiltrazioni di miliziani jihadisti verso la Cirenaica. Nei giorni scorsi ha chiuso tutte le vie di accesso alla base aerea di Tamanhint, alle porte della città di Sebha. Ed è proprio a Sebha che al momento rischia di scontrarsi frontalmente con i miliziani della città-Stato di Misurata.

Ma il Consiglio di Tripoli con un appello in tv ha intimato a Misurata di «astenersi da qualsiasi manovra militare a est che minacci la sicurezza della Mezzaluna petrolifera», ricordando «il supporto di Brega e Bengasi alla rivoluzione del 2011»: quasi una difesa di Haftar.