Qualcosa sembra alleggerirsi nel cielo plumbeo dell’austerità che schiaccia la zona euro dal 2008. Angela Merkel ha annunciato ieri di essere pronta a cedere, obtorto collo, su una della principali domande dell’Spd per formare una grosse Koalition: la Germania avrà un salario minimo interprofessionale. “Decideremo delle cose che, stando al mio programma, non considero giuste – ha affermato a Berlino ieri – tra esse c’è un salario minimo generalizzato”. Per Merkel, “una considerazione realista mostra che l’Spd non concluderà i negoziati senza il salario minimo”. Merkel non ha fissato né il montante di questo salario minimo né una data precisa (ma i negoziati dovrebbero essere conclusi entro la fine dell’anno) e ha cercato di rassicurare il padronato affermando che farà “di tutto per minimizzare l’effetto sull’occupazione del salario minimo” e per garantire la flessibilità (mentre non dovrebbe cedere sulla richiesta Spd di aumento delle pensioni minime). Oggi in Germania c’è un salario minimo solo per alcune categorie protette, mentre molti mini jobs sfuggono a qualsiasi regolamentazione. L’Spd chiede 8,5 euro l’ora. In Francia, dove lo Smic è a 9,43 euro lordi, il ministro delle finanze, Pierre Moscovici, ha visto nelle dichiarazioni di Merkel “un segnale di un approccio forse più cooperativo della politica economica in Europa”. Moscovici ha insistito di nuovo sulla “necessità di un riequilibrio” nella zona euro. Già la Commissione europea, mettendo sotto sorveglianza la Germania il 13 novembre scorso per eccesso di avanzo commerciale – supera il 6% del pil dal 2007 – aveva mandato un segnale a Berlino a favore di un rilancio della domanda interna in Germania, per permettere di allentare la stretta sui paesi soffocati dalle politiche di rigore. Olli Rehn, commissario agli affari monetari, ha certo ancora insistito ieri sulla “necessità di consolidare le finanze pubbliche” nei paesi in eccesso di deficit e di debito, ma ha ammesso: “visto che negli ultimi due anni gli squilibri si sono dimezzati, ora possiamo rallentare, possiamo concentrarsi sulle misure a favore della crescita, in particolare sulla fiscalità”. Per l’Italia, ci potrebbe essere una boccata d’ossigeno. Rehn apre uno spiraglio sull’utilizzazione della clausola sugli investimenti, i 3 miliardi che erano stai negati a Roma solo una settimana fa. “Dipenderà dalla spending review o altre decisioni”, ha messo le mani avanti Rehn, indicando che il deficit deve restare sotto il 3% per poter applicare la clausola. Rehn ha comunque affermato che oggi bisogna “ripristinare i prestiti bancari”, politica che è perseguita anche dalla Bce, con il ribasso dei tassi.

In effetti, in Europa, Rehn ha dovuto ricordare che solo l’Estonia e la Germania rispettano il Patto di stabilità. I paesi soffocati dal rigore, piegati da una disoccupazione devastante, sembrano essere riusciti a smuovere le certezze dell’ortodossia. Le minacce di un’impennata dei partiti populisti di destra alle prossime europee ha finito per convincere Bruxelles e Berlino che bisognava allentare un po’ le briglie. La Francia, dove è in corso una jacquerie fiscale di varie categorie, ha fatto pressing per un cambiamento di politica economica (ieri, i blocchi stradali dei produttori di cereali, i più protetti dalla Pac, si sono chiusi con la tragedia della morte di un giovane pompiere, in un incidente stradale). Pochi giorni fa, il ministro del rilancio produttivo, Arnaud Montebourg, aveva accusato José Manuel Barroso, presidente della Commissione, di essere “il carburante del Fronte nazionale”. Qualche mese fa, era stato il capo economista dell’Fmi, Olivier Blanchard, a fare mea culpa sulla scelta dell’austerità in Europa, sottolineando come ci fosse stata una sottovalutazione dell’effetto dei “moltiplicatori” (che hanno peggiorato la situazione, portando all’asfissia economica).

Ora l’abbozzo di svolta a Bruxelles è certificato da uno studio economico realizzato ad ottobre dal capo economista della Ue Jan In’t Veld, che ha calcolato gli effetti disastrosi dell’imposizione del rigore nella zona euro, una politica pro-ciclica che non ha fatto che aggravare la situazione in un periodo di crisi. Tra il 2011 e il 2013, l’austerità imposta ha fatto perdere all’Italia il 4,9% di crescita potenziale, il 4,6% alla Francia (1,6% l’anno), il 5,4% alla Spagna, il 6,9% al Portogallo. Per non parlare della Grecia, che su tre anni ha perso un potenziale di crescita dell’8,05%. L’austerità generalizzata ha colpito anche la prospera Germania, che ha perso un potenziale del 2,6%. La disoccupazione è stata l’effetto disastroso di questa politica. In media, potrebbero essere almeno 3 punti in meno nel tasso di senza lavoro nei vari paesi della zona euro.