Non serve una teoria del complotto su un virus sfuggito dal laboratorio per spiegare come scoppia una pandemia. Basta studiare il modo in cui stiamo sfruttando il pianeta. Gli spillover, cioè il passaggio di un virus da un animale selvatico all’uomo, non avvengono in luoghi a caso. Si verificano con maggiore probabilità laddove l’interazione tra uomini, animali e vegetazione crea una miscela esplosiva. Grazie a Maria Cristina Rulli, professoressa ordinaria al Politecnico di Milano, oggi siamo in grado di identificare i fattori che scatenano gli spillover e individuare le aree a rischio in cui potrebbe nascere la prossima pandemia.

L’OBIETTIVO non è diffondere il terrore, ma correre ai ripari prima che ciò avvenga. Rulli, che per lavoro studia la sostenibilità dello sfruttamento dei suoli, insieme ai suoi collaboratori ha scoperto i fattori che favoriscono gli spillover sono tre: l’insediamento umano, la forte densità di allevamenti e, soprattutto, la frammentazione delle foreste, spezzettate in aree abbastanza grandi da sostenere popolazioni di pipistrelli ma piccole a sufficienza perché i mammiferi volanti non rimangano isolati.

STUDIANDO mappe satellitari dettagliatissime, Rulli e il suo gruppo di ricerca sono riusciti a disegnare su una cartina geografica i luoghi della Terra più a rischio, in uno studio pubblicato ieri dalla rivista Nature Food. «Se il coronavirus sia uscito da un laboratorio probabilmente non lo scopriremo mai» spiega la professoressa. «Ma su una cosa siamo sicuri: lo spillover, o zoonosi, è il risultato di un’interazione tra l’uomo e l’animale selvatico. Allora ci siamo chiesti: possiamo misurare l’aumento di questi fattori di rischio e individuare le aree su cui vigilare maggiormente?».

LA RICERCA si concentra su un’area molto vasta, che da Europa e Nordafrica arriva all’Asia orientale e all’Oceania. È l’habitat dei pipistrelli detti “ferro di cavallo”, la famiglia da cui più probabilmente arriva il coronavirus del Covid-19. Grazie a un sistema immunitario particolarmente efficiente, i pipistrelli ospitano senza troppi problemi virus temibili per il nostro organismo come Ebola, Marburg, Nipah, Hendra e ovviamente i coronavirus.

LA MAPPA DEL RISCHIO disegnata da Rulli e colleghi è piena di puntini rossi. Sono i cosiddetti “hotspot”, dove uno spillover è più probabile. Decine di puntini rossi ricoprono le aree interne della Cina, e questo suggerisce che il coronavirus non sia opera della Spectre. Ma la Cina non è l’unica area a rischio. I puntini rossi compaiono per esempio nella zona indiana del Kerala, in Bangladesh, in Indonesia, in Australia. È una conferma che il metodo di Rulli funziona: sono proprio le zone in cui si sono osservati altri focolai epidemici. «In Bangladesh e Kerala – spiega la ricercatrice – si sono verificate le cinque più recenti epidemie di Nipah», il virus che ha ispirato il film Contagion. «In Australia sono stati segnalati i focolai del virus Hendra», altro virus sviluppato nei pipistrelli e reso famoso dal bestseller Spillover di David Quammen (ed. Adelphi, 2014, traduzione di Luigi Civalleri). Ma sarebbe sbagliato pensare che il pericolo venga solo da est. Diversi “hotspot” sono segnalati anche in Europa, e in particolare nel nord-ovest della Francia.

«IL METODO che applichiamo ora è stato sviluppato a partire da una ricerca che abbiamo realizzato nel 2017» racconta Rulli. «In quello studio avevamo analizzato le regioni in cui si erano sviluppati i 12 focolai del virus Ebola che si sono verificati tra il 2004 e il 2014. Da quell’analisi venne fuori che i focolai coincidevano con aree in cui la foresta appariva frammentata. Ci contattò il capo di gabinetto del governo della Guinea, che ci confermò che anche loro, senza aver effettuato la nostra analisi, avevano la stessa sensazione».

LA LEZIONE DI RULLI è che tra lo spillover e l’uso poco sostenibile della terra ci sia un legame molto stretto. Di cui tenere conto quando si fa pianificazione territoriale. Attualmente, si valuta la deforestazione soprattutto dal punto di vista delle emissioni di gas serra. Il virus insegna che non basta più. «Certe pratiche di deforestazione, che portano a frammentare le foreste, possono avere effetti indiretti sulla salute che possono essere ancor più pericolosi della deforestazione stessa» dice la ricercatrice. «Questi effetti possono derivare anche dall’espansione dei terreni agricoli e degli allevamenti».

PIANTARE ALBERI dove sono stati tagliati, magari per riassorbire una parte dell’anidride carbonica immessa nell’atmosfera, non è necessariamente la soluzione. Quelle “riforestazioni” pubblicizzate dalle grandi aziende a compensazione del loro elevato impatto ambientale si rivelano come semplice green washing, che in concreto non previene il rischio di spillover. È un rischio già evidenziato anche dal rapporto sull’uso della terra redatto dall’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu nel 2019. «Dipende molto da come si fa» spiega Rulli. «La Cina, uno dei paesi più a rischio di salto di specie, da sola è responsabile del 25% dell’aumento di superficie boscosa degli ultimi anni. Ma piantare alberi non sempre diminuisce la frammentazione delle foreste. Se si piantano su superficie isolate tra loro, e magari in monocolture che non danno continuità all’habitat pre-esistente, la frammentazione può persino aumentare a causa di queste azioni».