Léon Spilliaert, “Autoportrait aux masques”, agosto 1903, Parigi, Musée d’Orsay

 

Sul ciglio di una strada bianca, che attraversa polverosa una pianura deserta, dei femori umani si drizzano dalla terra come steli secchi di girasoli falciati. L’inquadratura da sotto in su e la silhouette dei femori in controluce rendono monumentali i resti ossei. L’atmosfera è umida, il silenzio regna sovrano, ed è una visione piena di premonizioni. L’opera, un inchiostro su carta, è di chiara matrice simbolista. Potrebbe essere un’allucinazione dell’austriaco Alfred Kubin ispirato da Edgar Allan Poe. O una concessione realista al nero come «agente dello spirito» dell’esoterico Odilon Redon. Ma questa Contemplation del 1900 è un’opera dell’artista belga Léon Spilliaert, che a quell’epoca è ancora in cerca di una propria autonomia stilistica. Eppure vi si scorgono già riconoscibili degli aspetti salienti della sua produzione più matura. L’inchiostro diluito su carta. L’essenzialità della composizione. La deformazione dell’immagine. La ricerca di prospettive e illuminazioni eccentriche.
Nel 1925, parlando della propria arte, Spilliaert dice: «Osservo una scena, ne traggo un’interpretazione, un’impressione. Il mio è un lavoro cerebrale, realista». Ed è essenzialmente emozionale e psichico il realismo di questo artista che almeno fino alla Grande Guerra resta uno spirito saturnino. Uno spirito dotato di un’espressività che per quanto allucinata non urla mai come quella di Munch. Anzi, la sua è una ricerca che resiste nell’inquietudine silente, nel perturbante onirico. Che riflette la condizione umana sulle nature morte, che diluisce la psiche nel paesaggio. Che vaga nella traccia notturna di luci isolate sotto gli spessi tendaggi della notte. È uno sguardo che progressivamente si smarca dal simbolismo per divenire, ruminando il pensiero nietzschiano, sempre più metafisico. Ed è di questo che tratta la mostra al Musée d’Orsay dal titolo Léon Spilliaert (1881-1946) Lumière et solitude, curata da Leïla Jarbouai e Anne Adriaens-Pannier (catalogo euro 39,00; in corso fino al 10 gennaio, ma attualmente il museo è chiuso causa Covid). Con un centinaio di lavori, la mostra si concentra sulle opere radicali degli anni giovanili più intensi, quelli che vanno dal 1900 al 1919.
In questo periodo Spilliaert dà consistenza d’immagine alla paura, alla presenza angosciante dell’inatteso, attraverso i suoi autoritratti, nelle visioni di interni opprimenti e morbosi, ma anche nei suoi paesaggi di Ostenda, disegnati principalmente durante vagabondaggi notturni. Sono inquietudini su carta, diluite con la china per stendersi in strati di opaca trasparenza. Una trasparenza congeniale al divenire fantasmagorico di tutto ciò che è percepito dal suo sguardo. Si pensi alla serie degli autoritratti, come l’Autoritratto con maschere (1903), dove l’artista ancora ventenne, di salute inferma, esorcizza la morte ritraendosi accompagnato da immagini spettrali di se stesso invecchiato. O l’Autoritratto allo specchio (1908), un vero e proprio memento mori, in cui Spilliaert attorniato da specchi e cornici in oro accentua le spigolosità dei propri lineamenti emaciati mentre si svuotano prima di divenire teschio. Oppure ancora l’Autoritratto al cavalletto (1908), in cui l’immagine in piedi dell’artista nell’atto di disegnarsi si moltiplica dietro di lui fino a divenire una presenza sempre più opaca e aliena.
Come bene nota in catalogo Leïla Jarbouai, tutti questi autoritratti sembrano le versioni oscure del parodico disegno dell’amato conterraneo James Ensor: Scheletro che disegna raffinate puerilità (1889). Ed è importante questa osservazione in parallelo tra i due artisti. In fondo Spilliaert, artista dal temperamento introverso, è un giovane dandy che vuole emergere e impressionare con le sue visioni talvolta un po’ troppo morbose. Ensor, più maturo, è un geniale quanto all’epoca non ancora riconosciuto artista che non ha bisogno di impressionare, ma di interpretare la vanità del mondo col pungolo della caricatura e del sarcasmo. A ogni modo Ostenda li concerne entrambi. Ed è una città da cui Spilliaert giovane vuole fuggire, come scrive in una lettera del 1908 a Stefan Zweig che gli acquista dei disegni. Ma il mare, la diga, il faro, i bagnanti, le donne dei pescatori lo irretiscono e sono i soggetti più iconici da lui rappresentati in quegli anni. A questo paesaggio naturale e umano Spilliaert si applica con la chiarezza e la grazia grafica di un Felix Vallotton. E col tempo vi sottrae dettagli, o meglio vi scorge geometrie, tendendo ad astrazioni quasi pure che sorprendono per la loro modernità.
Si pensi a Diga di notte. Riflessi di luce (1908) che rivela una prospettiva scomposta da fenditure luminose verticali che sembrano venire dal nulla. Oppure il taglio netto del Faro sulla diga (1908), dove la geometria quasi pura del camminamento è compensata dalle gradazioni di inchiostro della bruma in fondo. Oppure ancora la vertigine offerta dal Chiaro di luna e luci (1909), dagli svisati movimenti a spirale. Ma se fino a quel momento il cielo, il mare e la spiaggia sono delle superfici piane e astratte, è nel 1910 che Spilliaert comincia a contrapporre lo stallo geometrico terrestre al perturbante agitarsi grafico delle onde su cui si affacciano, come su enigmi indecifrabili, le Tre donne di pescatori sulla banchina e una Bagnante.
La solitudine metafisica che permea l’opera di Spilliaert lo induce naturalmente anche verso gli interni, gli oggetti. Il suo sguardo presta attenzione soprattutto a luoghi abbandonati, privi di presenza umana, o in qualche modo poco attraenti, per inoculargli un supplemento d’anima. E sicuramente questa capacità alchemica di dare un’anima alle cose e di mostrare insieme il visibile e l’invisibile, la materia e la sua essenza spirituale, trova forti affinità con l’attività paterna di profumiere.
Ed ecco che nel 1908 realizza una serie di disegni dedicata a una Camera in affitto in cui l’angustia di uno spazio senza pretese è ritratta da vari punti di vista come una composizione di oggetti e luci alieni. Come alieno, e fortemente spettrale, è Il salone di parrucchiere (1909), dove l’atmosfera dell’interno vuoto è resa ancora più fantasmagorica dalla sospensione su tutta la parete dei soprabiti dei clienti. Ma è nel misterioso gioco d’ombre, di luci e di riflessi di superfici trasparenti che sta la singolare bravura di Spilliaert. Lo spazio illusorio, il mondo vegetale che si interseca con le geometrie di costruzione, l’esterno che diviene interno, sono le caratteristiche di un’opera magistrale come La vetrata (1909).
L’attività di Spilliaert comincia grazie all’incontro benefico, nel 1902, con il suo primo editore Edmond Deman, che gli lascia ampio margine di azione e gli permette l’incontro con l’idealismo onirico della poesia di Verhaeren ma soprattutto con il teatro di Maeterlinck. Per illustrare il quale Spilliaert si prende grandi libertà, ma soprattutto studia il Théâtre de l’Oeuvre di Aurélien Lugné-Poe e le sue innovazioni scenografiche che portano il contributo del gruppo dei Nabis. Spilliaert si nutre delle forme schematiche e della giustapposizione dei colori piatti nelle soluzioni di Denis e di Vuillard, ma soprattutto fa risalire il teatro di Maeterlinck alle marionette d’ombra, con il grande merito di portare la scena nel libro. È in qualche modo questa scrittura ad avvicinare Spilliaert alla propria arte più originale. E non è un caso, infondo, che la sua opera non solo illustrativa sia così materialmente affine alla scrittura: fatta, cioè, di inchiostro su carta.