È stata l’ansia culturale non quella economica che ha consegnato la presidenza a Donald Trump. Paura degli immigranti, della perdita di egemonia dei bianchi, il sentirsi uno straniero nel proprio paese, travolto dai bisogni e dai valori delle «minoranze», fino ad arrivare a xenofobia e razzismo veri e propri sono, secondo un recentissimo studio del Public Religion Research Institute insieme alla rivista «Atlantic», le vere cause del disastro elettorale del 2016. Quando si è messo a lavorare su Blackkklansmen, più di un anno fa, Spike Lee aveva già intuito questi risultati, insieme alle statistiche sull’impennata del numero e delle attività degli hate groups.

Il suo nuovo lavoro, finora tra i più applauditi del concorso, è un period piece che unisce però con una linea nettissima i Seventies degli afro e della blaxploitation a Charlottesville, i cappucci e le cappe bianche nel griffithiano Nascita di una nazione e le nuove manifestazioni di suprematisti che – senza cappuccio e senza bruciare le croci – odiano quanto quelli di un tempo e hanno infiltrato pericolosamente il mainstream. Wake Up, svegliatevi, è il grido nemmeno tanto sottinteso del suo film, come urlava il disc jockey alla fine di Fai la cosa giusta.

Prodotto da Jason Blum e Jordan Peele, e finanziato dalla Universal Blackkklansman è tratto da una storia vera, quella di Ron Stallworth (John David Washington), primo agente afroamericano della polizia di Colorado Springs che esordì «in borghese» infiltrandosi nel Ku Klux Klan. L’immagine d’apertura è un campo lungo visto dall’alto, un campo pieno di cadaveri. Sulle note di Max Steiner, Rossella O’Hara cammina tra i morti contemplando la sconfitta del Grande Sud.

La bandiera confederata sventola a brandelli in alto a sinistra del fotogramma. Il tono di Lee è meno solenne che ironico – quella cultura non è mai morta…. Blackkklansman attacca come una commedia – c’è dell’assurdo anche solo nell’idea di un poliziotto afroamericano che deve usare come controfigura un collega bianco (ma è ebreo, Adam Driver – il KKK ne ha anche per lui); che viene mandato a spiare la ex Black Panther Stokely Carmichael e a fare da guardia del corpo al Grand Wizard del KKK / futuro candidato alle primarie presidenziali. David Duke (Tropher Grace). Le ultime immagini sono direttamente dalle news, ed è scomparsa qualsiasi voglia di ridere – la macchina che travolge la folla di Charlottesville, Trump che dice «non erano tutti razzisti. C’era un scacco di gente per bene». David Duke (ma è lui, non più un attore) che si complimenta con la parole del presidente.

Anche se non ha mai amato la blaxploitation, adattando (dal libro di Stallworth) una vicenda poliziesca il regista newyorkese gioca citando il genere e i suoi eroi – Shaft, Superfly, la Coffy di Pam Grier….Ma, rispetto ai suoi ultimi film (per esempio Chirac), questo è il meno «meta», il meno internamente tumultuoso e graffiante. Tra battute sul razzismo «in amitie» che si vive nel dipartimento di Colorado Springs, una trama romantica con una leader studentesca che ricorda Angela Davis e i ferocemente odiosi incontri del Klan, l’andamento narrativo è più lineare, disteso – il ritorno (dopo una serie di budget piccolissimi e persino un’avventura made in Kickstarter) alle produzioni da studio e alla voglia di raggiungere un pubblico più vasto. Tra i detour extranarrativi che Lee si concede, nella direzione più combattiva dello Spike di sempre, fortissima l’apparizione di Harry Belafonte che racconta per filo e per segno un linciaggio.