«Con Blackkklansman siamo dalla parte giusta della Storia». Diretto come il suo film, Spike Lee lo dichiara alla presentazione del suo nuovo lavoro a Cannes, dove lo accompagnano i protagonisti John David Washington, Adam Driver, Laura Harrier e Topher Grace. «A sottopormi la vicenda di Ron Stallworth – il poliziotto nero che nei primi anni 70 è riuscito a infiltrarsi nel Ku Klux Klan – è stato Jordan Peele (il regista di Get Out, ndr). Non ci potevo credere: più che una storia vera mi sembrava uno sketch di Dave Chapelle».

A quel punto, continua Lee, «il nostro compito era collegare questa storia che ha luogo negli anni settanta ai giorni nostri, per sottolineare come quello che sta succedendo oggi non è qualcosa di improvviso, ma viene da lontano». Il riferimento è all’ascesa dell’estrema destra negli Stati uniti sull’onda dell’elezione di Trump, e in particolare ai violenti scontri di Charlottesville dove i manifestanti neonazisti, del Klan e dell’Alt Right si erano ritrovati nell’agosto 2017 per protestare contro la rimozione della statua di un generale confederato. Fatti mostrati in chiusura di Blackkklansman da una moltitudine di punti di osservazione- «abbiamo pubblicato delle inserzioni sui giornali per farci mandare i video di chi era presente quel giorno» – e culminati nella morte della manifestante antifascista Heather Heyer, alla quale il film di Lee rende omaggio. «I fatti di Charlottesville sono accaduti a riprese ormai terminate, ma appena ho visto quello che stava succedendo ho capito che era su questo che dovevo concludere il mio film. Così ho cercato il numero di Susan Bro, la madre di Heyer, e le ho chiesto il permesso, che lei mi ha accordato, di portare sullo schermo le immagini dell’omicidio di sua figlia».

«Il tizio che sta alla Casa bianca, mi rifiuto di chiamarlo col suo nome – aggiunge Lee, che anzi a più riprese appella il Presidente ’motherfucker’ – in un momento così drammatico ha perso l’occasione per condannare l’estrema destra, per dire che gli Stati uniti rifiutano l’odio».

Due anni fa fa alla Berlinale Spike Lee aveva commentato la rapida ascesa di Trump, all’epoca non ancora il candidato ufficiale dei repubblicani alla Casa bianca, e si era detto terrorizzato dalla possibilità che il tycoon si ritrovasse un giorno a controllare i codici per l’utilizzo dell’atomica. Da Cannes, quando l’incubo dell’elezione di Trump è ormai diventato realtà, il regista racconta di essere perseguitato dall’idea della valigetta con i codici ormai saldamente nelle mani di The Donald: «Ogni notte prima di addormentarmi non posso fare a meno di pensarci».

Interpellato sulle prossime elezioni di metà mandato, si dichiara altrettanto scoraggiato: «Ho l’impressione che ormai lo voterebbero anche se si mettesse a sparare in mezzo alla 5th Avenue a New York». Ma il regista ci tiene a sottolineare che il razzismo e l’odio affrontati dal suo film non riguardano solo gli Stati uniti: «Queste cose stanno succedendo in tutto il mondo ormai, non possiamo restare indifferenti. Voi in Europa per esempio come state trattando i musulmani? Che accoglienza riservate ai migranti?».