«Ogni giorno negli Stati uniti muoiono una media di 99 persone per colpa delle armi da fuoco». Le statistiche sono riportate da Spike Lee alla conferenza stampa per la presentazione del suo ultimo film ,Chi-Raq, evento speciale alla Berlinale. «La città di Chicago è come una zona di guerra – aggiunge John Cusack, uno dei protagonisti – dall’inizio del 2016 lì sono morte 90 persone». Il titolo Chi-raq istituisce infatti un collegamento fra la città dell’Illinois – dilaniata dalle guerre tra gang- e l’Iraq, dove hanno perso la vita oltre 4500 soldati americani, in un film che è un fiero atto d’accusa contro la politica americana sulle armi e in fatto di uguali diritti per tutti.

«Il nome Chi-raq non l’ho inventato io, è stato coniato dai rappers locali», spiega Spike Lee. Un titolo disapprovato dal sindaco della città Rahm Emanuel, che ha chiesto a Lee di cambiarlo perché, ricorda il regista, avrebbe danneggiato il turismo e lo sviluppo economico. «Mentre facevamo le riprese però la città era invasa dai turisti. Il punto è che, come nel titolo del romanzo di Dickens, A Tale of Two Cities, si tratta della storia di due città: solo il sud e l’ovest sono poveri, violenti e pericolosi», nell’ambito di una metropoli dove ancora è palpabile la segregazione razziale.

Nella Chi-raq di Spike Lee, John Cusack è un prete cattolico che ha scelto di stare in quelle zone, e nei suoi sermoni fortemente politicizzati – Spike Lee li chiama «Sermon Manifesto» – invita i fedeli a «fare la cosa giusta»: denunciare gli assassini e deporre le armi. Il riferimento è a un vero prete del south-side di Chicago, padre Pfleger, «un bianco cattolico che predica per un gregge di soli neri», dice il regista.

E aggiunge John Cusack: «È un veterano del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta, esponente di una chiesa che seguiva i vangeli in modo nuovo, politico e radicale». All’ispirazione reale se ne aggiunge però anche una cinefila: il padre Barry interpretato da Karl Malden in Fronte del porto, che predicava contro i sindacati controllati della mafia e che sosteneva la necessità per la chiesa di «stare nelle strade», ricorda Lee.

A pochi giorni dagli Academy Award, al regista di Fa la cosa giusta viene anche chiesto cosa pensi dei risultati della sua chiamata al boicottaggio contro questi Oscar «troppo bianchi». «Io non ho mai dato inizio a un boicottaggio – specifica subito lui – io e mia moglie abbiamo semplicemente detto che non saremmo andati». Le ragioni sono risapute: «Questo è il secondo anno in cui l’Academy non candida neanche un afroamericano, e soprattutto per quanto riguarda le performance degli attori trovo che ne siano state ignorate molte che erano eccezionali». Eppure Spike Lee sembra soddisfatto di ciò che è accaduto: «Se non avessimo lanciato la polemica l’Academy non avrebbe fatto tutti quei cambiamenti che sono stati annunciati».

 

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La strada però è sempre in salita dato che, come fa notare il regista, il vero problema non sono gli Oscar ma i «gatekeepers», i guardiani: quei pezzi da novanta degli Studios cinematografici e della tv che «siedono in una stanza e decidono cosa si farà e cosa no. E loro, come i votanti dell’Academy, sono tutti uomini bianchi». Lee cita una ricerca per cui nel 2046 negli Stati uniti saranno i cittadini bianchi a trovarsi in minoranza: «anche se queste persone non credono nella diversità – dice il regista – so che credono fermamente nel dollaro, per cui si dovranno rendere conto che così facendo rischiano a breve di andare falliti».

In merito alle elezioni presidenziali di novembre, John Cusack si chiede se «Bernie Sanders non verrà schiacciato dalla macchina elettorale di Hillary Clinton, la favorita dell’establishment», chiarendo subito la sua preferenza per il candidato democratico alternativo. Anche se «qualora il candidato repubblicano fosse Donald Trump voterò per chiunque propongano i democratici». Lee invece ci tiene a dirsi soddisfatto degli anni della presidenza di Obama che una volta, racconta, ha invitato lui e la moglie alla Casa Bianca: «Io pensavo fosse una leggenda, ma c’è davvero un uomo che segue il Presidente ovunque con una valigetta ammanettata alla mano. Al suo interno ci sono dei pulsanti che, conoscendo la giusta combinazione, potrebbero spazzarci via tutti in questo istante. Vi immaginate se una cosa del genere finisse nelle mani di Donald Trump?».