L’anno è il 2045. Columbus, Ohio, la città in crescita più rapida del mondo è una bidonville di roulotte di metallo arrugginito impilate una sopra l’altra da cui i rispettivi residenti, che sembrano non conoscersi nemmeno tra di loro, non vedono l’ora di uscire. La way out da quel distopico squallore (più Ballard che Dick – chiaro frutto di secoli di tirannia del corporate e abusi vari nei confronti del pianeta e dei suoi abitanti) è OASIS, un vorticoso, coloratissimo, mondo virtuale/video game/social network globale, popolato dal meglio della pop cultura anni ottanta e a cui si accede mediante l’uso di tutine e caschetti per la realtà virtuale.

È lì che l’umanità passa la paggior parte del suo tempo. Tratto dal romanzo best seller di Ernest Cline, Ready Player One è sulla carta, il «ritorno in forma» di Spielberg alla dimensione della fantasia, all’universo creativo dell’immaginazione da cui sono scaturiti alcuni dei suoi film più grandi – un movie (come lo ha presentato il regista alla prima di Austin) da gustarsi con una vasca di pop corn, piuttosto che un film (che in inglese ha un’accezione più impegnata) con il soggetto «importante», come Lincoln.

In realtà, come è spesso successo in passato è dai movie spielberghiani, piuttosto che dai suoi film, che ci arrivano le storie più complesse, visionarie, politicamente ardite e personali. Era dai tempi di A.I., infatti, che Spielberg non faceva un lavoro così vicino a quelle che sono sempre state le sue preoccupazioni (poetiche ed estetiche) più profonde. E, a dispetto del magnifico sfondo futuribile, articolato grazie all’avanguardia tecnologica provvista da Lucas Film e Digital Domain, e agli omaggi multipli ai greatest hits di trentaepassa anni fa, Ready Player One sembra un film urgente, sull’oggi, molto più vivo e meno nostalgico di The Post.

Non è per nostalgia, infatti, che Wade (Tye Sheridan) passa la maggior parte del suo tempo in OASIS, dietro alle spoglie di un avatar di nome Parzifal, che ricorda un po’ Final Fantasy, alla guida di una DeLorean DMC-12, come quella di Back to the Future. La VR del social network, in cui fanno capolino Beetlejuice, un Gremlin, Iron Giant, il mostro di Alien, Il signore degli anelli, il bambino killer Chucky, numerosi riferimenti a Bob Zemeckis, Bee Gees, Duran Duran e naturalmente King Kong semina il terrore sullo skyline di New York, è l’unica realtà che conosce veramente, il suo vocabolario, in cui gli riesce di esprimersi e in cui ha degli amici.

Come Aech, un avatar di chissà chi e da chissà dove, o Art3mis, virtuale anche lei, per cui Parzifal/Wade si prende una cotta e, in occasione della prima date, è indeciso tra il vestirsi da Prince, Michael Jackson o Bukaroo Banzai. Sulla colonna sonora però non ci sono dubbi – Staying Alive. Creata dal nerd/visionario James Halliday (Mark Rylance), un ibrido di Steve Jobs e Mago Merlino, dopo la sua morte OASIS si è trasformata in un video game in cui i partecipanti lottano per trovare tre chiavi nascoste nel mondo VR dal geniale imprenditore. A chi le trova, andrà l’eredità di Halliday, e il controllo del suo mondo. Una corsa in DeLorean inseguiti da King Kong e dal T-Rex (tra le pochissime autocitazioni che Spielberg si permette) e un terrorizzante soggiorno al kubrickiano Overlook Hotel sono alcuni dei passaggi obbligati per arrivare alle tre chiavi. Sulle tracce di Parzifal, Art3mis e Aech il capo di una classica grande corporation (Ben Mendelson) che vuole impadronirsi di OASIS con propositi chiaramente nefasti e che ha assoldato/schiavizzato, per aiutarlo, un’armata di gamers. Il businessman cattivo che vuole addomesticare la fantasia e schiacciare gli outsiders è un classico (Joe Dante si era ispirato a Trump in Gremlins 2!). Ma qui Spielberg va oltre quel personaggio di cartone.

Impossibile, oggi, guardare Ready Player One senza pensare a Facebook/Cambridge Analytica e alle implicazioni della nostra esistenza «online». Nato e cresciuto nell’ebrezza di una comunione tra cinema, fantasy e tecnologia, insieme ai grandi della sua generazione citati qui, Spielberg – come Halliday – si interroga sulle insidie dietro al mondo magico che lui stesso ha contribuito a creare. Quindi sulla sua eredità. Nessuno, eccetto forse Zemeckis, avrebbe potuto farlo con la stessa spericolatezza e lucidità, lo stesso mix di gioia intrepido/avventurosa e malinconia.