Uscito in libreria lo stesso anno in cui E.T. è arrivato nei cinema, The Big Friendly Giant (Il grande gigante gentile, pubblicato in Italia da Salani, nel 1987) è uno dei grandi scritti di Roald Dahl, un dissacrante, buffissimo, ottovolante di giochi di parole, pieno di viaggi ai confini del mondo, grondante del sangue di bambini divorati da cannibali alti come montagne, fetido dei peti provocati da una bibita esilarante, con bolle che vanno a fondo invece di venire a galla, e in cui lo spirito combattivo di un’orfanella londinese e la mite saggezza di un gigante vegetariano seducono persino la regina d’Inghilterra.

Dopo Wes Anderson (Fantastic Mr. Fox), Tim Burton (Willi Wonka e la fabbrica di cioccolato), Henry Selig (James and the Giant Peach), e il presidente della giuria di Cannes 2016 George Miller (Le streghe), è Steven Spielberg a misurarsi con l’inesauribile fantasia dello scrittore inglese, di cui quest’anno si celebra il centenario. Il risultato, The BFG, presentato al festival fuori concorso, è un film molto bello da guardare ma meno dahliano, e ispirato, di quello che speravamo. Spielberg, e la sceneggiatrice di E.T. Melissa Mathison (scomparsa l’anno scorso, questo è l’ultimo copione che ha scritto), sciolgono il furioso ritmo impresso sulla pagina in una narrazione contemplativa, tranquilla, evitando di avventurarsi nei meandri più paurosi e dissacranti del libro di Dahl e riducendo (probabilmente giocoforza), lo sparring verbale tra il gigante e la bambina; ma rinunciano così a una buone dose di spessore emotivo e filosofico. Oltre che di humor.

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Forse la qualità anarchica, dark, costruttivista e spesso distruttiva, dell’immaginario di Dahl lo rendono più idoneo alla malinconia perversa del cinema di Tim Burton e alla materia ossessiva di quello di Wes Anderson, che alla luccicanza di Spielberg, la cui magia, evidentemente, resiste l’idea di decostruire se stessa. Dopo tutto, anche se Spielberg lo ha prodotto, è stato Joe Dante a dirigere Gremlins, un film ispirato da creature mitiche, cattivissime, votate al sabotaggio e alla sovversione, a cui lo scrittore inglese aveva dedicato un altro dei suoi libri.

The BFG inizia nel cuore della notte. È – ci spiega Sophie (l’esordiente inglese Ruby Barnhill), che soffre d’insonnia – l’ora delle streghe. Non è una strega, però, quella che, infilando una mano enorme dalla finestra, strappa la bambina al letto dell’orfanotrofio dove abita, bensì un signore alto, una decina di metri e dotato di orecchie enormi e sensibili. Ancora avvinghiata alla trapunta, in cui era avvolta, Sophie vede scorrere davanti a sé, a grande velocità, mari e montagne, fino alla dimora del suo rapitore, che sono una caverna nel paese dei giganti. Nonostante l’armamentario di cucina e una breve permanenza in padella, la bimba scopre presto che il Grande Gigante Gentile (Mark Rylance, la spia sovietica di Il ponte delle spie, qui rielaborato con la magia dell’animazione motion capture), che la tiene prigioniera, non solo non ha intenzione di farle male: è vegetariano, condannato a nutrirsi di putridi cetrionzoli, bianco/verdi e pieni di vermi, che sono l’unica cosa che cresce lì intorno.

Purtroppo, la avvisa però il GGG, non sono vegetariani i suoi simili, che rumoreggiano fuori dalla porta – nove in tutto, con nomi evocativi come (nella traduzione italiana del libro) il ciuccia-budella, il trita-bimbo, il succhia-ossa, lo spella-fanciulle e il sanguinario. Molto più grandi e rozzi del GGG, questi cannibali X large, partono per regolari spedizioni notturne di caccia, durante le quali danno sfogo alla loro passione per carne giovane quindi tenerissima. Regolarmente schernito e brutalizzato dagli altri, anche il GGG ha un hobby: la raccolta dei sogni, di tutti gli umori e i colori possibili, che colleziona in centinaia di barattoli trasparenti nella sua caverna e che, con il favore delle tenebre, poi inietta nel sonno degli umani dormienti. Nella spedizione di Sophie e del GGG in cerca di sogni, Spielberg crea alcuni dei momenti visivamente più incantevoli e complessi del film, con giochi cromatici, di superfici traslucide e di sotto/sopra. Rylance dà al gigante una calma benevola, rassicurante, qualità completamente opposte a quelle che probabilmente gli avrebbe portato Robin Williams, l’attore che i produttori Kathleen Kennedy e Frank Marshall volevano quasi vent’anni fa, quando iniziato a sviluppare il progetto (Spielberg lo aveva già scritturato nel ruolo di Peter Pan).

Guardando The BFG, viene in mente anche la trasposizione di Bob Zemeckis del dickensiano A Christmas Carol, un capolavoro di motion capture animation a cui l’animazione e l’ideazione del gigante di questo film devono molto. Ma di cui qui manca l’energia eversiva portata a Scrooge da Jim Carrey.