A Milano in novembre può far buio alle quattro, come alle Svalbard. E poi Pero non è neppure Milano; dopo la metro più d’un chilometro a piedi, nella bruma; ed è facile confondersi fra i capannoni: la scritta «Galleria Christian Stein» è pressoché impercettibile. Un bel contrappasso allestire la nuova mostra di Giulio Paolini – il più incorporeo degli artisti – in due sedi distinte. Una retrospettiva, dagli anni ottanta sino ad oggi, a Pero; e l’opera nuova che dà il titolo alla mostra (a cura di Bettina Della Casa, sino al 29 aprile) – con un’unica parola lapidaria Fine – a Palazzo Cicogna, in centro. Colla mia superstizione storicista mi picco di vedere prima il prima, e poi il poi; e allora, «invece del fandango, / una marcia per il fango». Messo piede nei vasti spazi di Pero, però, l’umore cambia. A contrasto col buio fuori, questa cellula sfolgorante di luce pare lo spazio fuori dallo spazio e fuori dal tempo, l’ambiente settecentesco dove perviene il viandante nietzscheano nel 2001 di Stanley Kubrick. Ogni rumore è amplificato dal silenzio, ogni gesto dall’immobilità del tutto. Unico visitatore, nel bianco lunare mi muovo con circospezione da astronauta.
Si capisce bene, qui, il senso teatrale dell’opera di Paolini (diceva Tommaso Trini nel ’73 – ora in Mezzo secolo di arte intera, Johan & Levi 2016 –: un «teatro di idee drammatizzate»): nell’invito, al verso della parola Fine c’è un sipario chiuso. Come in de Chirico, la scena è il set di apparizioni pianificate dal soggetto, scenografo e regista. Magnifiche le Scene di conversazione del 1982-’83 (allestite per Carlo Quartucci a Documenta 7, con musiche di Mozart e Haydn): quattro leggii come in attesa di un quartetto d’archi; uno di essi è caduto a terra, e sul pavimento sono sparsi i fogli bianchi d’uno spartito ineseguibile, e le effigi dei musicisti finiti chissà dove.
In Galleria si trova anche, come a guardia dell’insieme, un bellissimo libro d’artista. Uno dei tanti di Paolini, ma questo – colla complicità delle edizioni Colophon di Egidio Fiorin – davvero monumentale (Orfano e celibe, pp. 48 su nivea carta a mano, cm 42 x 31, € 90,00), che reca i suoi autocommenti impaginati in versi (racconta Paolini che tale scansione s’è prodotta in modo quasi incosciente; sicché esclude «l’intenzione di valenza poetica» a quanto ha «“trascritto” in versi»). Vi si legge: «Guardo sempre volentieri un libro antico: / posso anche non leggerlo / (qualcuno lo ha già letto). // Il luogo però deve essere perfetto: / la lampada già accesa, la stanza silenziosa, / tutto deve essere al suo posto». Questo è il white cube per eccellenza, e ogni mostra di Paolini è una mostra alla potenza: il luogo dove viene convocato, cioè, quello che per lui è l’eterno, intemporale e parmenideo, dell’arte. Perché si compia questo rito il luogo deve essere perfetto – e questo lo è.
Il teatro serve a mettere in scena, ogni volta, il paradosso di Paolini. L’autore si professa uno spettatore: di ciò che, come per de Chirico – schopenhauerianamente –, altro non è che una rappresentazione. Ma è condannato a essere, altresì, l’attore in commedia. Lo spartito caduto, o le sedie rovesciate nei lavori dell’ultimo periodo, alludono alla sua precipitosa uscita di scena: nel tentativo impossibile di assistere, alla medesima opera, nella posizione appunto dello spettatore. In questa spaltung Paolini è a un tempo – in un nuovo paradosso di Zenone – Achille e la tartaruga (citava Lacan, Trini: «lo sguardo è al di fuori, io sono guardato, cioè io sono il quadro»). La sua è un’estetica della sparizione, una scomparsa elocutoria del soggetto per dirla con Mallarmé. Su questo punto si trova con Italo Calvino (che nel ’75 così introduceva a uno dei primi libri di Paolini, Idem): «lo scrittore ammira molto gli sforzi del pittore per arrivare a un’impersonalità assoluta, per sfuggire all’aborrita psicologia», ma constata che così finisce per tornare «l’io, sia pure un io cartesiano, categorico, grammaticale, anonimo». Vale infatti per entrambi, lo scrittore e il pittore, il medesimo paradosso: l’assenza e l’estasi (alla lettera, l’uscita da sé) dell’impersonalità sono enunciati con parole, e immagini, che per il loro stesso manifestarsi negano quell’assenza e quell’impersonalità (si misura qui la distanza fra questa scomparsa concettuale e quella, effettiva, di un Emilio Prini per esempio). «La parola dell’arte», scrive Paolini, «è il silenzio»; ma questo silenzio è enunciato in migliaia di pagine.
È questo il senso del monumentale allestimento eponimo a Palazzo Cicogna, ispirato all’Embarquement pour Cythère di Antoine Watteau, 1717. Una nave di fortuna, costruita con oggetti dello studio: calchi di statue classiche, L’indifferent dello stesso Watteau en abîme, cornici dentro le cornici, un leggio; non manca la sedia rovesciata. Come ha scritto Marco Vallora sulla Stampa, una «sorta di coreografia arrestata» – un minuetto assassinato. Comunque, dice Paolini, una «falsa partenza»: come quella dei bon vivants di quel paradiso immobile, candito dal flash di Watteau tre secoli fa. In essa si specchia quella di «chi, come noi, non riesce o non vuole imbarcarsi a raggiungere un traguardo così definitivo e assoluto» (la fine, appunto: se è vero, come si legge in Orfano e celibe, che deplorevole è «il suicidio, / atto enfatico e dimostrativo»). L’estasi dell’imbarco è interdetta per sempre. E la nave fa eco a quella di un altro remake a Pero, il Radeau de la Méduse da Géricault.
Ma quello impossibile è un viaggio d’andata o di ritorno? Su questo si dividono gli interpreti di Watteau. La fine – come nell’opera con cui tutto cominciò nel ’60, il Disegno prospettico – coincide con l’inizio. Come in Kubrick; o come nell’amato Borges. Già nel ’72 Marisa Volpi trascriveva la Nuova confutazione del tempo: «negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico, sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete». Ma la clausola di questo Borges suona come una condanna a vita: «il tempo è un fiume che mi trascina, ma sono io il fiume . Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges».