Le recenti dichiarazioni dei ministri dell’Interno e dell’Agricoltura sulla presunta inutilità della legge sul caporalato hanno destato l’allarme delle realtà italiane che si occupano della filiera alimentare e delle sue zone d’ombra. Ne è un esempio l’associazione Terra!, prima firmataria di una lettera inviata al Parlamento in cui si definisce la legge 199 un «caposaldo della nostra architettura normativa», dato che responsabilizza non solo il caporale, ma anche l’azienda che se ne serve.

Nel suo report #FilieraSporca, in cui si analizza il processo con cui il prodotto agricolo arriva dal campo alla tavola, l’associazione aveva già denunciato come il caporalato non rappresenti che un anello di un meccanismo in cui «l’uso di manodopera straniera sottopagata è un modello di produzione, non un’emergenza umanitaria».

Dalla Calabria al Piemonte, come in gran parte dell’Europa del Sud, l’agricoltura intensiva ha caratteristiche simili: scarsità salariale a fronte di una grande mole di lavoro e un approccio imprenditoriale basato sull’illegalità, con pervasive presenze mafiose.

Del prezzo con cui il prodotto arriva sul mercato solo una minima parte è destinata al bracciante (circa 0,6 centesimi dei 2 euro ricavati, per esempio, dalla vendita di un kg di arance) mentre il resto si perde nella lunga catena di intermediari. È per questo che il sistema produttivo si serve di manodopera ricattabile disposta a lavorare a bassissimo costo, come quella migrante.

Le motivazioni insinuate dai ministri della Lega per giustificare lo smantellamento della legge 199 (che invece potrebbe trovare una spiegazione verosimile nella deregolamentazione a favore delle aziende), è quella secondo cui non sarebbe servita ad eliminare i ghetti fatiscenti in cui i migranti vivono soprattutto durante il periodo delle raccolte. Ma, come spiega Terra!, i ghetti sono una conseguenza di un sistema che si nutre dello sfruttamento come qualcosa di strutturale.

L’associazione ha denunciato come alcuni soggetti della Gdo, in particolare i discount, ricorrano alle aste online per acquistare grandi quantità di conserve a prezzi stracciati, innescando un meccanismo al ribasso che individua come concorrenziali solo gli agricoltori che risparmiano sulla qualità del raccolto e sulla manodopera.

«Invece di stravolgere la legge sul caporalato, fortemente voluta dalle associazioni perché finalmente pone le basi per limitare lo sfruttamento lavorativo, bisognerebbe intervenire sulle pratiche di commercio sleali», afferma Fabio Ciconte, presidente di Terra! «Fino a quando avremo una Grande distribuzione che comprime i prezzi l’agricoltura avrà sempre una marginalità bassissima, in cui si va a tagliare sui costi del lavoro. C’è un problema di trasparenza, non sappiamo nulla dei prodotti che acquistiamo al supermercato, per questo chiediamo al governo di limitare le storture della filiera, per esempio imponendo la tracciabilità delle etichette».

Pochi giorni fa l’associazione ha lanciato il progetto «In campo! Senza caporale», che prevede l’impiego di alcuni ragazzi migranti attraverso lo stanziamento di borse lavoro presso 5 aziende agricole biologiche della zona di Cerignola, in Puglia. I giovani saranno iniziati alle tecniche dell’agricoltura biologica e naturale da alcuni insegnanti e agronomi della Scuola diffusa della terra Emilio Sereni, anch’essa gestita dall’associazione Terra!

L’obiettivo è di creare inclusione sociale in un territorio fortemente colpito dallo sfruttamento lavorativo, con la speranza che il progetto sia preso da esempio dalle istituzioni e dimostri che è possibile fare un’agricoltura sostenibile e dignitosa.