«Non deve esserci sospetto di discriminazione politica sulle scelte del governo perché né la malattia né la salute hanno colore politico. Per questo abbiamo chiesto che il ministro Speranza venga a chiarire i criteri delle zone». Quando è il capogruppo di un partito di maggioranza, in questo caso il Pd Delrio, ad ammettere che qualche chiarimento è indispensabile, vuol dire che la sensazione che non tutto abbia funzionato nella lunga preparazione delle ultime misure è assai diffusa anche tra i giallorossi. Non c’è bisogno di ascoltare le urla della Lega in apertura di seduta ieri alla camera – squallide e offensive nei confronti della deputata Pd Quartapelle – o le lamentazioni biforcute dei presidenti di regione. «Il governo chiarisca» lo dicono anche i partiti di maggioranza, e non sono i soliti pierini di Iv.
Speranza così torna alla camera questa mattina,per una «informativa urgente» (non si voterà) sul medesimo provvedimento che il presidente del Consiglio aveva illustrato lunedì. Anzi, il lungamente invocato ritorno di Conte in parlamento per la presentazione e discussione (in quel caso con voto) del Dpcm era in principio previsto per mercoledì. Ma era stato anticipato proprio su richiesta del governo perché le misure andavano adottate al più presto. Non si poteva aspettare. Peccato però che il presidente del Consiglio lunedì non sia stato in grado di dire nulla sulla divisione delle regioni nelle tre zone – gialla, arancione e rossa – malgrado i dati alla base di questa divisione, si è scoperto poi, fossero all’epoca già disponibili perché vecchi di una settimana. Paradossalmente, il provvedimento che lunedì era urgentissimo – tanto che non si poteva aspettare mercoledì per rispettare l’appuntamento fissato con le camere – è stato poi adottato in ritardo ed entra in vigore solo oggi. Proprio quando il ministro della salute è costretto a tornare in aula per spiegare.

Su Speranza Conte ha scaricato la responsabilità di dividere le regioni nelle tre fasce colorate. E dunque di decidere i differenti livelli di chiusure e i conseguenti, indispensabili, sacrifici delle libertà. Il tutto con ordinanze ministeriali. La legittimazione di queste ordinanze è già dibattuta. La prima, firmata il 4 novembre, richiama sia il solito articolo 32 della legge del 1978 istitutiva del servizio sanitario, sia tutta la lunga serie di decreti legge per l’emergenza. Testi che però affidano la responsabilità dei provvedimenti di chiusura al solo presidente del Consiglio. In effetti a legittimare queste nuove ordinanze, con le quali da qui in avanti e per un periodo non breve il ministro della salute chiuderà e aprirà le regioni, c’è soprattutto il Dpcm del 3 novembre, che le prevede all’articolo 2. Ma quella è una copertura insufficiente, non essendo i Dpcm, come è ormai noto a tutti, un atto avente forza di legge.

«Il ministro della salute non è solo, sotto la sua firma c’è la firma di tutto il governo», ha dovuto precisare ieri il ministro degli affari regionali Boccia al termine della conferenza Stato-Regioni. Come si sia arrivati a questa divisione delle responsabilità non è più un mistero. Le regioni hanno respinto per giorni il pressing perché fossero direttamente loro ad adottare le misure necessarie, sotto la loro responsabilità. Ieri si è visto bene il perché, nel momento in cui hanno attaccato il governo per scelte che si basano sui dati che loro stesse trasmettono (o non trasmettono, o trasmettono incompleti) a Roma. Il governo allora si è rifuggito nella scelta tecnica, ancorando le impopolari chiusure a criteri presentati come oggettivi. E affidando pertanto la firma dei provvedimenti al ministro (tecnico) e non al presidente del Consiglio (politico). Così a Speranza tocca spiegare, lo farà stamattina in parlamento. Ma intanto ai presidenti delle Regioni ha già detto: «È surreale che anziché assumersi la loro parte di responsabilità facciano finta di ignorare la gravità dei dati dei propri territori».