E’ passato quasi un secolo dalla pubblicazione del libro di Oswald Spengler Der Untergang des Abendlandes, suddiviso in due parti, edite rispettivamente nel 1918 e nel 1922, anche se il progetto venne concepito prima della Grande Guerra. Ora Giuseppe Raciti, già curatore nel 2016 di L’uomo e la tecnica, propone in una nuova versione la prima parte di Il tramonto dell’Occidente Lineamenti di una morfologia della storia universale (Aragno «Biblioteca», pp. 680, € 40,00), sottotitolata Forma e realtà. L’intento dichiarato è quello di svincolare l’immagine di Spengler dal retaggio consolidato di Julius Evola. Fu infatti Evola, singolare figura di intellettuale fascista inviso allo stesso regime per il suo oltranzismo, dadaista della prim’ora nonché collaboratore della famigerata rivista «La difesa della razza», versato in alchimia ed esoterismo, a tradurre nel 1957 per i tipi di Longanesi il capolavoro di Spengler. La sua versione, apprezzata da Cesare Cases, si è trascinata fino ai nostri giorni, avvalendosi del «restauro eseguito» nel 1978 dal gruppo palermitano coordinato da Furio Jesi, definito dallo stesso Raciti «fin troppo conservativo».
È perciò da salutare come un vero e proprio evento editoriale l’impresa di riproporre un testo difficile, controverso, ma di indubbio fascino, di cui a tutt’oggi non si riesce a stabilire la reale portata sul piano sia speculativo sia, più espressamente, ideologico. Si tratta infatti di un’opera per antonomasia attribuita alla «cultura di destra», mentre secondo Raciti si è travisato il pensiero dell’autore, riconducibile a quella temperie etica denominata «socialismo prussiano». Spengler licenziò infatti nel 1919 il saggio Preussentum und Sozialismus, con il quale si proponeva di conciliare le ferree regole della disciplina teutonica e un socialismo sui generis, che poco ha da spartire con la lezione ortodossa di Marx e di Engels. In questo senso il messianismo di Spengler non poteva non affascinare lettori d’eccezione come Mussolini o lo stesso Hitler, nonostante le divergenze fossero palesi: il filosofo tedesco non apprezzava l’impero romano mitizzato dal fascismo («Bisogna guardare al dominio mondiale dei Romani come a un fenomeno negativo») e considerava poco meno che triviale la politica del Führer (il nazismo venne definito un «movimento volgare guidato da un capo volgare»).
La stessa complessità strutturale dell’opera rappresenta, di per sé, un unicum, come avverte l’autore: «In questo libro viene tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci si è proposti di predire il destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri». Il testo risente del fermento culturale che caratterizzò la Germania, e in particolare Monaco, nel primo ventennio del secolo, in cui abbondavano profeti e profezie di ogni genere (si pensi, per esempio, al poeta Stefan George) e dove l’elemento esoterico era quanto mai presente. Osserva Furio Jesi: «Spengler visse come personaggio marginale questi conflitti, o almeno queste situazioni di ambigua solidarietà, durante la sua giovinezza; poi intervenne, profeta, a pronunciare nuovamente la parola “tramonto” quando il tramonto della Monaco della Reggenza e della Germania guglielmina era cosa accaduta. Che poi “la decisione del compimento finale” significasse la “rivoluzione” nazista e il Reich millenario, fu cosa dinanzi alla quale Spengler non si ritrasse, non facendo in tempo (morì nel 1936) a vedere un ulteriore tramonto».
Il tramonto dell’Occidente si configura come una sorta di summa del sapere occidentale che non può trovare ulteriori sbocchi di sopravvivenza, avendo consumato il suo «ciclo» vitale: «Frattanto la serie “antichità-medioevo-età moderna” ha esaurito la sua efficacia. Per quanto angusto e superficiale fosse il suo basamento scientifico, essa ha comunque offerto una cornice, in minima parte filosofica, ove sistemare i nostri risultati, sicché quanto finora è stato rubricato come storia universale le deve qualche avanzo di contenuto; peccato, però, che il limite massimo di secoli previsto da questo schema fosse stato raggiunto da un pezzo». Spengler contesta «il percorso lineare» della storiografia secondo il quale gli eventi seguirebbero un andamento costellato di tappe intermedie tese a un fantomatico progresso, in parte riagganciandosi alla lezione di Frobenius secondo la quale le civiltà, guidate da forze irrazionali, nascono, si sviluppano ed esauriscono in base a cicli vitali.
Ma i maestri dichiarati sono Nietzsche, con le sue teorie relative all’«eterno ritorno» e alla «volontà di potenza», e Goethe, considerato da Spengler alla stregua di un vero e proprio filosofo, il cui mito di Faust è alla base del criterio interdisciplinare che è un Leitmotiv del libro. L’autore spazia, con incredibile disinvoltura, da un argomento all’altro, occupandosi di matematica, religione, economia, filosofia, musica, arte. Sembra voglia intraprendere un inventario del mondo («il cosmo è la storia del cosmo» scrisse Jesi) la cui concezione ha in sé qualcosa di esaltato, a tratti di delirante. Veniva contestato a Spengler, soprattutto da parte dell’establishment culturale, un approccio di tipo antiscientifico alla materia trattata. Anche nel nostro paese furono avanzate riserve, visto che Benedetto Croce tacciò di «dilettantismo», «ignoranza» e «inconsapevolezza» l’autore del Tramonto dell’Occidente. D’altronde Spengler stesso osserverà che «la volontà di trattare scientificamente la storia rimane un proposito sostanzialmente contraddittorio». Ribadendo ancora: «Essere oggettivi è l’orgoglio degli storici moderni, ma in questo modo essi rivelano scarsa consapevolezza dei loro pregiudizi».
Nella prefazione, Raciti ha isolato tre tematiche ricorrenti nel Tramonto dell’Occidente: il motivo magico, «di sconcertante attualità», che contrappone civiltà islamica e cristianesimo; il rapporto speculare tra faustismo e Antike, «tra il plesso euroccidentale, fantasiosamente intitolato al mito ripreso da Goethe, e la civiltà greco-romana, con la seconda nel ruolo decisivo della Zivilisation»; il socialismo come «specie di mysterium coniunctionis, dalla cui azione alchemica dipenderanno le sorti del mondo occidentale». Ma l’attualità di quest’opera dalla mole enorme non si esaurisce qui: si pensi, in un’epoca contraddistinta dal terrorismo «globale», al tema del cristianesimo che si disgrega nelle spire dell’arabismo, o al recupero della tecnica in un periodo storico in cui dilagavano le prese di posizione antipositivistiche nei confronti della stessa. La «veggenza unificatrice dei linguaggi (delle scienze naturali, della matematica, della storiografia o della filosofia della storia, della mitologia)», di cui parlava ancora Jesi, viene prefigurata nella dettagliata introduzione, sorta di libro nel libro, in cui Spengler raccoglie le sue riflessioni orientate a descrivere un «tramonto» che, in qualche modo, risente dello Zarathustra nietzschiano. Non è un caso che, in un saggio successivo, Anni della decisione (1933), scrivesse: «L’Occidente è sotto assedio; i popoli d’Oriente lo minacciano».
Quando vide la luce, Il tramonto dell’Occidente ebbe un inaspettato successo presso il pubblico tedesco che, traumatizzato dalla disfatta bellica, si riconosceva nel pessimismo spengleriano. Thomas Mann, dapprincipio affascinato dall’opera (fece riferimento a Schopenhauer), ne prese progressivamente le distanze, asserendo in una lettera di voler rimanere fedele alle figure di Goethe e Nietzsche, ma di considerare «il signor Spengler l’astuta scimmia» di quest’ultimo. Forse non aveva compreso che, come attesta lo stesso Spengler, «sulla storia occorre poetare».