La storia di Diana Spencer è stata raccontata diverse volte. Al cinema, un buon film di Stephen Frears osservava il suo personaggio usando una cartina al tornasole, nella persona del giovane Tony Blair che, ad inizio mandato, si trova a dover gestire l’emozione popolare che l’improvvisa scomparsa di Diana Spencer suscita, rischiando di travolgere la corona inglese e la stabilità di quell’antica monarchia costituzionale. In televisione, diversi sceneggiati hanno messo in scena la vita coniugale della principessa, il suo divorzio e l’incidente mortale a Parigi. La serie televisiva The Crown le dedica una larga parte delle stagioni 4, 5 e 6 – queste ultime due non ancora diffuse.
Il progetto di Pablo Larraín è molto diverso da questi adattamenti naturalistici. Nonostante il film sia interamente concentrato sul personaggio da cui prende il nome, non si tratta di un film biografico. È vero che, anche chi non si interessa alle vicende della casa reale inglese, conosce l’essenziale della storia di Diana Spencer.

MA È ANCHE VERO che, se c’è un piacere nel vedere un film sulla vita dell’ultima icona pop di fine secolo, questo sta appunto nell’anatomia minuziosa del suo corpo storico, come sapevano fare gli agiografi delle corti europee prima dell’invenzione delle Storie dei popoli e delle nazioni. È di questo piacere specifico che si nutre il pubblico della serie The Crown.
Solo in un certo senso, Larraín fa tutto il contrario. Abbandona la storia per dare al suo dramma l’unità di tempo e di luogo propria della tragedia. Il film comincia con Diana che arriva sola in macchina nella dimora dei Windsor a Sandringham per participare alle celebrazioni natalizie. La festa nel castello dura solo tre giorni, che appaiono dilatarsi come un incubo e durare perciò un secolo.
Il tono e il ritmo è dato da una musica di Jonny Greenwood che entra ed esce di scena con un piano solo, con un violino stridente o con l’orchestra, conferendo al film un colore lisergico che l’immagine accentua alternando campi lunghi ad inquadrature a spalla. L’impressione è che Diana sia caduta nella tana del coniglio, ritrovandosi in un wonderland che somiglia più all’Overlook Hotel di Kubrick che al castello della regina di cuori di Disney. Intorno a lei si agita un mondo meccanico, freddo, militare che non è nuovo al cinema di Larreín.
Si osserva sempre, in questo cineasta, l’idea che il cinema sia una sorta di punto di incontro tra una festa spensierata e un campo di concentramento. Nei suoi primi film, questa duplicità del reale era pensata nella sua unità: il personaggio di Tony Manero, per esempio, era al tempo stesso un ballerino amatore e freddo omicida. In questa strana arancia meccanica Larreín vedeva l’essenza del fascismo cileno. Ma anche l’essenza della macchina cinema.
Si può pensare Spencer come il terzo episodio di una trilogia di cui i primi due capitoli sarebbero Jackie e Neruda. In tutti e tre, l’autoritarismo e il suo contrario, il militarismo e la fantasia, sembrano scissi. Ma, guardando attentamente Spencer si ha l’impressione che questa scissione non sia che apparente.

NON CHE DIANA faccia mai parte del mondo dei Windsor. I suoi unici rapporti umani sono con i figli, con l’assistente che si occupa del suo guardaroba e, in maniera più contorta, con altri membri della servitù. D’altro lato, tutto questo mondo sembra in qualche modo esistere solo per lei. Come in ogni sogno, nessun personaggio ha una sua realtà propria, tutti sono delle estensioni dell’io di chi sogna.
Larraín si diverte a disseminare il suo «wonderland» di oggetti: il vecchio giaccone tolto ad uno spaventapasseri; le tende cucite, come una sorta di sutura; la biografia di Anna Bolena. Difficile dire se questi elementi siano dei simboli, dei dettagli senza significato oppure dei Mcguffin.
Il più interessante è senza dubbio il libro su Anna Bolena, che rinvia all’idea d’agiografia. È Diana stessa a dire che, più passa il tempo più la conoscenza dei personaggi della casa reale si riduce: «Se sei di casa reale, più il tempo passa, più si riducono le parole usate per descriverti». Guglielmo il conquistatore, Elisabeth la vergine…e Diana? Quale sarà il suo nomignolo? La matta? Lorraín, per parte sua, non prende rischi: Spencer.