Alla domanda: perché proprio Lady D? Pablo Larraín risponde che era affascinato dalla sua «favola al contrario di principessa che ne ha cambiato il paradigma decidendo di non diventare regina». Come aveva fatto per Jackie Kennedy anche nel confronto con Diane Spencer prova a «costruire» un gesto cinematografico di memoria cogliendone l’essenza nel tempo e nello spazio di un momento chiave della sua vita. In Jackie era il giorno dell’omicidio di John Kennedy, suo marito a Dallas, per Lady D la cena di Natale poco prima del divorzio dal principe Carlo.

Entrambe figure femminili iconiche che hanno conquistato i media e anche tra molta aggressività, mutato le «regole» e i rituali di rappresentanza delle «istituzioni» in cui erano entrate come consorti, la Casa Bianca Jackie, quella reale inglese Diana. Che in poco tempo era divenuta una star sui media di tutto il mondo, immagine di stile e vera diva, al punto da morirne quel luglio del 1997, quando con la Mercedes nera si schiantò nel tunnel a Parigi, vicino alla Tour Eiffel, mentre fuggiva dai paparazzi che la tormentavano.

EPPURE questa ragazza bionda, di famiglia altolocata, non pensava probabilmente di diventare un mito modernissimo: sorridente e piangente nell’intervista sulla Bbc dopo la separazione aveva raccontato i tradimenti, la tristezza del suo matrimonio fallito, la crudeltà dei dissidi a corte, i tentativi di suicidio – come non pensare all’intervista di Harry e Meghan di qualche mese fa – lanciando un’accusa precisa. E poi assecondando la sua immagine ne disseminava le tracce tra i concerti degli U2, negli ospedali del mondo, ai funerali di Versace insieme a Elton John: una continua fuga in avanti nelle identità, una serie di trasformazioni, da ragazza e sposa trepidante del principe erede al trono fino a quel corpo ridisegnato da anoressia, bulimia, autolesionismo.

Ma Spencer non è una biopic, anche se in quei tre giorni si intuisce molto di quanto è accaduto e accade, soprattutto il terrore della corte di essere «scoperta» al di là delle immagini ufficiali per colpa della principessa triste. «Ti piace essere fotografata ma al massimo saremo una faccia su una moneta» le dice dura Elisabetta.

DIANA sta male, vomita, si tormenta: nella residenza delle feste il suo dolore si fa sfida a quell’etichetta, alle cene, al codice di comportamento che lei non sopporta, che la uccide forse di più dell’umiliazione di quelle perle che il marito Carlo ha regalato uguali a lei e all’amante. Ci sono solo i figli con cui può giocare, confidarsi, lasciarsi andare, e l’amata assistente che l’adora ma che la Corte allontana per crudeltà. La ossessiona mentre osserva la casa della sua infanzia andata in rovina il fantasma di Anna Bolena, uccisa dal marito che la tradiva. E poi? Larraín concentra la narrazione di Lady D sulla solitudine, lo scollamento tra l’immagine «pubblica» dell’etichetta e il gesto quotidiano, l’aggressività del Palazzo e dei media.

Quello che manca però è la sua fascinazione: cosa l’ha resa iconica? A guardarla nonostante gli sforzi di Kristen Stewart – che ha raccontato quanto il ruolo abbia messo alla prova la sua fisicità – sembra soltanto lo stereotipo della donna nevrotica e viziata, la cui mancanza di libertà si riassume nel non poter mangiare pollo fritto al Kfc. Della sua immagine e di cosa ha significato, della sua forza di trasgressione nell’immaginario di fine secolo scorso non traspare nulla: il regista appare molto distante da tutto questo, e anzi ciò che gli riesce meglio è la rappresentazione della corte: le regole, la geometria militare, l’ipocrisia, le composizioni spaziali di un codice nel quale tutto è stabilito e deciso prima di accadere.

È questo il punto di vista nel quale Diana viene restituita è come se la vedessimo con i loro occhi mentre è risucchiata nel suo delirio di bulimia e ossessioni compulsive e ridicolizzata fino al fastidio nell’ordine del suo cinema militaresco.