La consuetudine espositiva più ricorrente nel campo dell’arte contemporanea è caratterizzata dall’utilizzo del white cube, un luogo contraddistinto dalla pulizia formale, dall’uso del bianco alle pareti nonché dalla scarsa interazione dell’opera con il contesto. Similmente a quanto accade con le cattedrali protestanti, lo spazio espositivo dei musei e delle gallerie è candido, con pochi elementi in rilievo, quasi spoglio: è il contenuto – le opere nel caso del museo, lo spirito nel caso delle chiese – che lo definisce nel ruolo e nelle sue funzioni pubbliche. Ma uno spazio bianco è anche un palinsesto, una pagina su cui è possibile scrivere nuovamente dopo aver fatto tabula rasa. È infatti nel suo continuo riscriversi che esso trae forza, poiché viene fecondato da ulteriori stimoli, ma senza che vi siano interazioni tra quello che c’era prima e quello che ci sarà dopo: il white cube libera le opere dalla determinazione cronologica, le rende a-storiche e a-temporali, disponibili cioè al nostro sguardo senza che vi sia una collocazione puntuale rispetto all’orizzonte degli eventi e senza che sia percepita l’ansia del tempo che fugge. Inoltre l’assenza di caratterizzazioni architettoniche e cromatiche mette le opere nella condizione di non interagire con il contesto, consegnandole agli occhi dello spettatore in una condizione di assolutezza e purezza, in un recinto quasi sacro in cui l’aura, nonostante tutto, è ancora percepibile.
Ribalta visivamente e concettualmente tale modalità espositiva la mostra di Olafur Eliasson Baroque Baroque ospitata a Vienna presso il Palazzo d’Inverno del Principe Eugenio, fino al 6 marzo (la mostra è curata da Daniela Zyman e Mario Codognato, prodotta da Belvedere e Thyssen-Bornemisza Art Contemporary). E sono due i cardini su cui è costruito tale capovolgimento: lo spazio non neutro e fortemente connotato, e poi l’opera dell’artista danese, capace di interagire e contaminarsi con gli stimoli del contesto sviluppando delle modalità visive mirate alla meraviglia.
La sede infatti è uno scintillate palazzo barocco di grandi dimensioni, restaurato negli scorsi anni, in cui ogni elemento architettonico è improntato al fasto, alla sontuosità e alla ricchezza. È cioè un luogo dove ciascuna sala in cui la mostra è ospitata canta la propria presenza, il proprio esistere, la propria storia e la propria determinazione temporale: in un continuo florilegio di riferimenti al committente e al suo mondo, sono presenti al massimo grado le determinazioni storiche, culturali ed estetiche di quella realtà che ha prodotto quello spazio. E la lingua parlata dal luogo è il barocco.
Ma sono altrettanto concettualmente barocche anche le opere di Olafur Eliasson, come intelligentemente suggerisce alla ripetizione della parola nel titolo della mostra. Barocche nella ricerca dello stupore e della partecipazione visiva ed emotiva del visitatore, come pure nella capacità di interagire con un luogo arricchendone le possibilità espressive, innervandolo di contenuti e rimandi ulteriori. Le sue opere sono infatti in grado, sia per vicinanza espressiva che per ricerca dell’effetto, di attivare uno spazio fortemente caratterizzato come la Residenza del Principe Eugenio, di non renderlo banale contesto, ma dispositivo capace di sovrapporre senso al senso, artificio all’artificio, meraviglia alla meraviglia. Ma che cos’è ai nostri giorni il barocco?
L’etimo della parola «barocco» è incerto. Molti autori segnalano come esso derivi dal termine francese «baroque» (in spagnolo «barrueco» e in portoghese «barroco») che nel Seicento si usava per indicare una perla di forma irregolare, ossia una perla «bizzarra» e quindi evidentemente più «rara» rispetto all’ordinario. È solo nel periodo classicista alla fine del Settecento che la parola comincia a essere utilizzata dai letterati per indicare gli autori del periodo storico precedente, in maniera polemica, denigrandone lo stile bizzarro, irregolare, basato quasi esclusivamente sulla ricerca dell’effetto. Dalla seconda metà del Novecento abbiamo maturato l’idea che il barocco sia una categoria metastorica, ed è ricorrente usare la parola anche per definire l’arte e la letteratura di periodi differenti, in quanto esso pare esprimere i tratti di una determinata categoria estetica e universale che indica tutto ciò che è fuori misura, eccentrico, eccessivo, fantasioso, stravagante, iperbolico, magniloquente, che tende a privilegiare, grazie alla ricercatezza formale, l’aspetto dell’effetto in un voluto richiamo ai sensi, alla vista, allo stupore. Valori su cui la mostra è costruita.
Baroque Baroque si apre nell’androne del palazzo con Die organische und kristalline Beschreibung (Una descrizione organica e cristallina), una proiezione realizzata attraverso uno specchio concavo che dà all’occhio la sensazione di inondare lo spazio con dell’acqua colorata continuamente cangiante. Eliasson usa la volumetria e le superfici elaborate del palazzo, ricche di stucchi e di nicchie, per trasportare teatralmente lo spettatore altrove, caratterizzando lo spazio di confine esterno/interno come il prologo di un viaggio all’insegna della meraviglia. Poco più in là, invece, sul regale scalone con statue e putti che porta al piano nobile, lo sguardo cozza contro il giallo artificiale tagliente, opportunamente creato con delle lampade che emettono luce di particole lunghezza d’onda tale da trasformare ogni colore – compresi vestiti e le parti del nostro corpo – in gradazioni di paglierino e nero. È come essere immersi in un mondo diventato improvvisamente monocromatico, piallato in un giallo e nero in cui ogni altra variante di colore non è riconosciuta dalla nostra retina, esattamente come capita a molte specie di insetti la cui vista non contempla tutte le lunghezze d’onda del visibile.
Il ricorso alla luce e alle sue potenzialità di mostrare il mondo in modalità differenti rispetto all’ordinario è una delle diventate cifre stilistiche di Eliasson, sin dagli esordi negli anni novanta, ed è anche alla base di alcuni dei suoi lavori più noti, inclusa la celeberrima installazione alla Turbine Hall della Tate di Londra, in cui egli aveva creato l’illusione di un sole al tramonto all’interno dello spazio. All’interno della sua ricerca si nota così come l’artista ricorra alla luce non solo per creare il senso di illusorietà/finzione, ma frequentemente impieghi essa stessa con finalità direttamente costruttive, usando fasci di luce come fossero materiali costruttivi, elementi di un’architettura in cui anche lo spettatore fa la sua parte. È il caso ad esempio di Your uncertain shadow, che proietta la silhouette dello spettatore sul fondo del muro moltiplicandone l’immagine in tanti profili colorati. Collocata in uno spazio di transito buio e vuoto, l’installazione consente anche al più distratto dei visitatori di vedere la propria forma sul muro di fronte, e lo stimola a ingaggiare un confronto per capire se l’immagine percepita sia la propria o quella di qualcun altro. Tale dinamica intercetta l’attenzione e induce chi guarda a giocare con il proprio profilo per vedere l’effetto dei propri movimenti sul muro, diventando grazie a tale interazione, contemporaneamente il medium fisico dell’opera e il suo destinatario, come accade anche in molti dei cangianti caleidoscopi presenti nel palazzo, in cui ci si accosta per guardarsi o per guardare un altro visitatore riflesso e deformato centinaia di volte in un fiore di geometria e colori.
Il pezzo centrale della mostra, che ha una funzione di trait d’union, è uno specchio di oltre sessanta metri che unisce differenti stanze le cui porte sono allineate. È una vera e propria fascia che passa sotto le porte e riflette una porzione importante di ciascuna stanza, ma non per tutta l’altezza, spiazzando lo sguardo dell’osservatore che è in difficoltà a capire le delimitazioni volumetriche. In ciascuna sala, poi, vi è posto per un’opera ulteriore, dal corridoio percorribile di Fivefold tunnel al corrimano inclinato di Wishes versus wonders, magistralmente riflesso, che mettono in luce gli elementi costitutivi di tutta la poetica di Eliasson: una sensibilità architettonica dello spazio, l’uso della tecnologia quale strumento primario di meraviglia, la concezione dell’opera come dispositivo barocco. E come ammoniva Giovan Battista Marino, «chi non sa far stupir, vada alla striglia».