Quando gli dei scendono le scale, lasciano un vuoto. David Bowie lascia vuoti molti spazi. Troppi, forse, per essere un divo. E anche se, per oltre quarant’anni, è stato l’emanazione e la traduzione popolare del divino, così come vuole la stessa etimologia della parola divo, che la sua scomparsa sospettata ma inaspettata conferma nella sua accezione più tragica. Musicista e attore. È vero, forse le frettolose biografie lo descriveranno per le sue due professioni. Bowie, però, è stato molto di più: ha messo a disposizione della sua arte la potenza deflagrante della propria immagine, costruita con la fantasia senza freni di chi costruisce l’iconografia del mito con la potenza dell’iconoclastia che distrugge la banalità e costruisce l’eccezione.

David Bowie aveva il tratto glamorous negli occhi. Come se quelle iridi eterocromiche, quei due colori diversi dei suoi occhi indagatori, fosse un’anticipazione e una conseguenza della sua personalità irrequieta e inquieta, capace di costruire il fisico, e di vestirlo, secondo le libertà assolute della sua mente.

Unico artista del palcoscenico, finora, ad avere il potere di creare mode a ripetizione, alle sue immagini Bowie ha lasciato soltanto un tratto comune, quello dell’assoluta irrilevanza del genere, con i continui sconfinamenti nel trans gender, inteso come sconfinamento libero tra i generi, negli anni in cui il glam rock era più una tendenza dell’abbigliamento che una forma musicale e Bowie fa della moda una parte della sua arte. Lo è stato agli inizi, quando indossava tutine aderenti dai colori sgargianti e ricamate di paillettes e quando si inventa un’immagine parallela e alternativa a quella della modella-star Twiggy. O quando, nel 1974, in un servizio del fotografo Terry O’Neill, in coppia con lo scrittore William Burroughs, si è servito di un giubbotto di pelle verde e di un cappello per crearsi perfino una fisicità femminile, con un seno percepito nella bombatura nel giubbotto.

E lo è anche quando si sposa con la modella Iman, immagine vivente dell’alterigia di quella bellezza naturale che la moda aiuta ad esprimere, e trasferisce il suo ideale di glamour da sé alla sua compagna di vita, quasi in una osmosi chimica che gli permette di possedere quell’ideale dell’immagine di sé che lui ha rincorso per tutta la vita e non ha mai raggiunto per limiti di genere, appunto. Un meccanismo che in Miriam si sveglia a mezzanotte è evidente in quegli abiti di pelle nera che, in tutto uguali a quelli della comprimaria Catherine Deneuve, si allontanano dal genere più di ogni altra successiva elaborazione della moda dei designer attuali.

La differenza tra Bowie e chi è venuto dopo è che lui le mode le inventava, non le subiva. Aveva preso alla lettera il compito degli artisti: portare le piume in testa non è un travestimento ma l’affermazione di una diversità. Il suo non era un travestimento da palcoscenico ma un modo di vestire. Gli sconfinamenti sessuali, semmai, venivano dopo il progetto visivo che continuamente aggiornava su se stesso.

E forse anche prima del 1973, quando il trucco per la copertina di Aladdin Sane conferma semplicemente la sua appartenenza a una sua propria natura e la tuta a strisce da dark Pierrot, che si fa disegnare dallo stilista giapponese Kansai Yamamoto per l’omonimo tour, è soltanto l’inizio di una collaborazione con gli stilisti alternativi che, nel 1997, lo vedrà suggerire a un giovane Alexander McQueen la famosa redingote della Union Jack che indossa sulla cover di Earthling.

Ed è in questo coraggio dell’invenzione che la moda deve molto a David Bowie, l’uomo che si è voluto vestire seguendo le pulsioni della propria mente.