«Il capitale non vuole abolire la penuria d’abitazioni, ammesso che lo possa». Friedrich Engels lo scrisse nel 1872 ne La Questione delle Abitazioni. «Non restano – proseguiva – che due vie d’uscita: l’iniziativa personale dei lavoratori e l’iniziativa statale». Dopo quasi centocinquant’anni dallo scritto engelsiano appare evidente che le soluzioni al problema della cronica scarsità di alloggi a prezzi sopportabili per famiglie a basso e medio reddito restino le stesse, anche se sono mutati le condizioni e i contesti.

OGGI NON SI TRATTA solo di sopperire all’insufficienza dell’edificato. La «questione» è più complessa e non riguarda solo il quanto, ma il come la gente abita e vive, in altre parole, il rapporto tra la casa e l’habitat, le contraddizioni dell’urbanesimo disordinato e l’urbanità. Si discutono quali sono le strade migliori da intraprendere del «fare città» affinché non solo l’alloggio – lo si legge nella Carta dell’habitat di Confcooperative redatta da Giancarlo Consonni – «diventi centrale nella politica e nei saperi disciplinari che si occupano delle trasformazioni dell’ambiente fisico». C’è insomma la necessità di fare emergere, dopo l’impietoso fallimento delle politiche sulla casa in Italia, un nuovo e diverso «interesse per i luoghi».
Tuttavia permane comunque nel nostro paese la drammatica situazione dell’abitare sociale come si ricava dall’ultimo Rapporto (2017) dell’osservatorio Housing Europe (www.housingeurope.eu), il network che raccoglie gli operatori di ventiquattro paesi in rappresentanza di circa quarantatremila soggetti tra enti pubblici e cooperative del settore. Le aziende di edilizia popolare oggi ospitano circa settecentocinquantamila famiglie che rappresentano un terzo di chi ne ha bisogno.
A fronte di circa un milione e settecentomila famiglie che stanno affrontando diversi problemi economici e abitativi, sette milioni di case sono vuote o occupate come non residenza primaria. Intanto, si allungano le liste di attesa comunali, dove sono sospese circa seicentocinquantamila domande per l’alloggio sociale da parte di nuclei familiari che soddisfano i requisiti; mentre deperisce la nuova offerta di alloggi sociali, anzi si è dimezzata la produzione, passando tra il 2005 e il 2014, da circa novemila unità all’anno a quattromila e seicento.

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ASSISTIAMO, quindi, a un aggravarsi dello scenario del fabbisogno abitativo non solo non soddisfatto, acuito da fattori nuovi quali quelli demografici e climatici. C’è l’urgenza di studiare sia nuovi tipi edilizi e piani insediativi, sia di programmare, attraverso incentivi, la rigenerazione energetica delle proprietà immobiliari pubbliche. Ritorniamo però ai contenuti dell’«urbanità» all’inizio accennati. Richard Sennett in Costruire e abitare (Feltrinelli, pp. 366, euro 25) ha spiegato bene l’importanza di intendere la città secondo due figurazioni: l’una il «luogo concreto e materiale» dell’abitare, l’altra lo spazio «mentale» delle percezioni che ognuno di noi vive; da un lato il «territorio edificato», dall’altro il luogo dei contatti e dello scambio con vicini e stranieri.

PER DISTINGUERLI il sociologo statunitense ha utilizzato due parole della lingua francese: ville e cité. Tra le due non c’è nessuna coincidenza perché «i valori dei costruttori e quelli del pubblico non sono sullo stesso piano». Citiamo un suo esempio per meglio comprendere la differenza: a New York «gli ingorghi all’imbocco di tunnel mal progettati appartengono alla ville, mentre la vita frenetica che spinge i newyorkesi al calar della sera appartiene alla cité». Del saggio di Sennett, ha già detto su queste pagine Benedetto Vecchi (il manifesto, 26/5/2018). Tuttavia, ciò che a noi interessa è che l’urbanità riguardante la cité e alla quale va ricondotto l’abitare sociale nei suoi aspetti etici e sociali, non si può conciliare con gli irriducibili interessi della ville.

GIÀ IL NUMERO e la densità eccessiva degli abitanti provocano un’alterazione insanabile delle relazioni sociali, come spiegò per primo Aristotele e poi confermarono Simmel, Weber, fino ai sociologi della Scuola di Chicago, per arrivare a Sennett. In ogni caso alla socialità non si può rinunciare e la progettazione solidale e cooperativa, ossia «aperta», rappresenta la sola via da perseguire. Insieme alla costruzione di alloggi occorre introdurre interventi di welfare di comunità per favorire coesione e integrazione tra gli abitanti.

LE BUONE PRATICHE non sembrano mancare come illustra il manuale collettaneo Cambiare l’abitare cooperando (Bruno Mondadori, pp.186, euro 22) dove si prende atto ormai di una domanda abitativa eterogenea alla quale si deve rispondere sempre più con «interventi mirati e non standardizzati». Insieme, quindi, alla necessità di soddisfare la domanda abitativa a prezzi sostenibili, si devono «ri-pensare» le relazioni sociali nello spazio nel quale s’inserisce l’azione del «gestore sociale» con il difficile compito di «mediare all’interno di una comunità che si ri-crea dal basso».
Il volume elenca una serie di buone pratiche connesse a interventi edilizi – per lo più localizzati al nord – e tutti realizzati nell’ambito del partenariato pubblico-privato tra fondazioni bancarie e Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), i quali con il Fondo Investimenti per l’Abitare (Fia) hanno sviluppato fino a oggi centotrenta progetti con un ritorno calmierato del capitale, anche se non è scritto con quali performance determinate dalle società di gestione del risparmio che li guidano.
Ci attendiamo che gli interventi per colmare il nostro deficit di abitazioni sociali possa comprendere, nel prossimo futuro, nuovi investitori istituzionali oltre a quelli del Fia prima citato. Sarà anche importante mettere a confronto quanto si è fatto con le esperienze di altri paesi europei per misurare la qualità dei progetti realizzati e il gradimento di chi li abita. In questa direzione può essere utile leggere il saggio di Stefano Guidarini, New Urban Housing (Skira, pp.171, euro 25), in particolare la sezione riguardante i sei casi-studio dell’«abitare condiviso» a Zurigo.

LA RICOGNIZIONE effettuata da Guidarini riguarda un periodo che va dal 1998 al 2017 e illustra l’«utopia costruita» di un sistema di «cooperazione tra cooperative» che ha dato rilevanti risultati avendo raggiunto un evoluto grado di sostenibilità, flessibilità e pluralità di funzioni in edifici sobri e coerenti, soprattutto bene contestualizzati. Sarebbe consigliabile mostrarli in uno dei prossimi appuntamenti di Urbanpromo: una manifestazione sempre troppo indulgente verso le nostre pubbliche amministrazioni.
Accanto all’approfondimento dei «gusci» di Guidarini c’è la riflessione sulla «forma-tipo» dell’urbanistica, per usare il frasario di Sennett, alla quale può essere ricondotto il saggio di Gabriele Pasqui, La città, i saperi, le pratiche (Donzelli editore, pp.VI-138, euro 24). Preso atto del «pluralismo radicale delle forme di vita», il «fare città» ipotizzabile nelle sue forme più democratiche, deve riguardare strategie più complesse di quelle oggi disponibili. L’obiettivo da porsi non è quello del «vivere insieme», ma del «fare insieme». Solo attraverso la costruzione di uno «spazio di relazione», nel quale si coopera, interagisce e si è in «com-presenza» con gli altri distintamente, sarà possibile governare i conflitti generati dal vivere nella città, di là di qualsiasi questione identitaria.
Pasqui, attento osservatore delle forme e delle «tensioni» che si producono nello spazio pubblico, ci avverte sulla necessità di non semplificarne la complessità urbana poiché il progetto urbanistico è lo svolgersi di un «intreccio tra spazio, diritti, doveri e forme della rappresentanza» con centro chi la città la abita insieme ai suoi conflitti permanenti.