Il premio Mies van der Rohe offre sempre una utile occasione per conoscere lo stato dell’architettura contemporanea. Il suo svolgimento dal 2001 – data di inizio sotto l’egida dell’Unione Europea – prevede che ogni due anni un nutrito gruppo di critici, associazioni nazionali di architetti e membri dell’Architects Council of Europe selezioni una serie di opere che sono state completate nei due anni precedenti. In seguito una giuria premierà due sole architetture: a una va il premio vero e proprio, alla seconda una menzione speciale. Una mostra e un catalogo fanno poi il giro delle più importanti sedi espositive europee illustrando con disegni e modelli le architetture più meritevoli tra le centinaia selezionate. Per l’edizione 2013 le opere nominate sono state trecentotrentacinque e cinque le finaliste, che ci indicano ancora come la penisola iberica e il nordeuropa siano le aree geografiche nelle quali si concentra la migliore qualità architettonica. Dal giudizio di una guria si può sempre dissentire, ma il coinvolgimento di numerosi soggetti nella selezione è garanzia di equilibrio e neutralità, qualità purtroppo assenti in altri premi simili, anche di casa nostra.

Alla Triennale di Milano, fino al 1 settembre, è dunque possibile visitare la mostra del premio Mies van der Rohe, purtroppo costretta in una sala che non rende comoda la fruizione dei quaranta progetti scelti, non offrendo loro il risalto che meriterebbero. Cominciamo dall’opera vincitrice: la sala concerti e il centro conferenze Harpa a Reykjavik dello studio danese Henning Larsen Architects (Peer Teglgaard Jeppesen e Osbjorn Jacobsen) e di quello islandese Batteríid Architercts, con l’artista Olafur Eliasson. L’Harpa può apparire come un omaggio alla Glasarchitektur di Paul Scheerbart con il suo involucro di vetri poligonali che riflettono l’acqua e la luce del porto sul quale si affaccia e che riveste i due blocchi delle sale e dell’auditorium. A Reykjavik – ispirandosi alle colonne cristalline di basalto dell’isola – si è voluta replicare quella rigenerazione urbana di aree con un basso gradiente attrattivo, ma molto vicine al centro cittadino, già realizzata da Glasgow a Bilbao, da Barcellona a Marsiglia. Non è, quindi, una novità la strategia di ridisegnare con nuove funzioni rivolte al tempo libero parti di città un tempo destinate a attività produttive: ciò che da noi fatica a avverarsi per l’assenza di un impegno serio e coerente dell’amministrazione pubblica e a causa del cinismo dell’imprenditoria privata.
È singolare, poi, il fatto che accanto a questo progetto islandese così impegnativo sul piano dell’investimento tecnologico, quindi economico, la giuria del premio abbia voluto assegnare la menzione speciale a una architettura di tutt’altro segno e carattere: la Red Bull Music Academy degli architetti madrileni María Langarita e Víctor Navarro. Di carattere opposto rispetto allo spazio della musica «tradizionale», che ospita l’Iceland Symphony Orchestra, la Red Bull Music Academy si è voluto segnalarla proprio come espressione di un modo diverso di concepire un luogo per la ricerca e l’esecuzione musicale. A Madrid, in un macello abbandonato, i progettisti hanno voluto creare il contesto più adeguato a un festival nomade che da Tokyo, a causa del terremoto, ha per necessità cambiato destinazione.

La Nave de la Música è stata allestita in due mesi inserendo sotto alla preesistente copertura industriale in ferro e vetro, una serie di scatole in compensato con tetti a doppia falda che contengono i laboratori e gli studi insonorizzati per i musicisti. La Red Bull Music Academy – hanno dichiarato i progettisti – «non è un edificio, ma una città. Un posto che raccoglie la diversità e si modifica nel tempo». Il carattere informale, frammentato e al tempo stesso attento alla conservazione dell’identità del manufatto edilizio originario, ha determinato l’apprezzabile criterio con il quale si è saputo intervenire nella creazione di uno spazio pubblico attraente e vivo. Per incoraggiare una vita di relazione è necessario oggi, soprattutto nelle aree marginali delle periferie urbane, dedicarsi allo sviluppo di spazi pubblici, una aurgenza che anche il Superkilen di Copenaghen – tra le cinque opere finaliste – concorre a segnalare.

In un’area semicentrale, chiusa all’estremità da un terminal in disuso della ferrovia e tra blocchi di edifici residenziali abitati da immigrati, lo studio BIG, fondato nel 2006 dal giovane Bjarke Ingels, ha messo da parte per un momento la spettacolarità dei grandi e complessi edifici per concentrarsi sul come dare «significato spaziale» a una striscia di terreno consegnato alla microcriminalità a causa dell’abbandono e del degrado. La superficie è stata suddivisa in tre parti: una piazza colorata con l’asfalto rosso e fucsia per le attività sportive, un parco erboso per il gioco dei bambini, un mercato per la vendita di generi alimentari con un’area per il picnic. Il risultato non era scontato, anche se la capitale danese è tra le città più sensibili nel perseguire strategie di riqualificazione urbana e si è avvalsa di urbanisti come Jan Gehl, che sul tema della sostenibilità hanno dato più di un valido contributo.

Ancora intorno al tema dello spazio pubblico generatore di nuove e inedite spazialità ruotano gli altri due progetti finalisti: il Metropol Parasol di Siviglia dello studio tedesco Jürgen Mayer H. e il mercato coperto a Gand (Belgio) degli studi Robbrecht en Daem architecten e Marie-Josè Van Hee architecten. Sebbene non paragonabili per dimensioni, le due architetture sono assimilabili per essere delle coperture situate nel delicato tessuto di un centro storico. A Siviglia il Metropol Parasol copre quasi integralmente la Plaza de la Encarnación, e si configura come uno scenografico landmark, obbligandoci a chiederci se la bellezza della città andalusa sentisse la necessità di una simile architettura per coprire un mercato e i resti archeologici sottostanti. È di magra consolazione sapere che, trattandosi di una copertura in legno, quindi reversibile, abbia consentito la più avanzata tecnologia di incollaggio: ben altri e più credibili primati può raggiungere l’architettura per proporsi come una «nuova esperienza urbana». Ci riesce, per esempio, la copertura cuspidata belga posizionata tra la chiesa di San Nicola, la torre medievale di Benfry e la cattedrale, in un’area che prima era un desolante parcheggio.

L’intervento «rimpolpa» l’uso pubblico (sostenibile) di una porzione del centro storico di Gand denso di memorie, impiegando materiali e tecnologie green in una forma architettonica che evoca con eleganza la tradizione gotica. L’ultima architettura tra le cinque finaliste è la Casa per anziani dei fratelli Aires Mateus a Alcácer do Sal (Portogallo). Su un lento declivio si adagia – come un serpente disteso placidamente al sole – l’edificio basso (tre piani) di intonaco bianco. L’architettura si configura come una linea spezzata a sezione variabile composta alternativamente di pieni (stanze) e di vuoti (terrazze). L’assoluto rigore formale favorisce il dialogo con il paesaggio agrario che gli sta intorno e la soluzione tipologica è un sorprende equilibrio tra artificio e natura.

Tra i progetti selezionati meritano di essere citati anche il museo archeologico Alésia a Alise Sainte Reine di Bernard Tschumi, per la chiarezza del suo programma funzionale; la trasformazione dell’edificio multipiano a Parigi di Frédéric Druot Architecture e Lacaton & Vassal architectes, per l’incremento del comfort negli alloggi in un edificio degli anni ’60 destinato a essere demolito. Interessanti per l’integrazione realizzata con il paesaggio sono anche il centro visite Causeway Giant’s a Bushmills dello studio Heneghan-Peng architects e il progetto di José Maria Sánchez García, che riesce a valorizzare il tempio romano di Diana a Mérida (Spagna) attraverso la perimetrazione dell’area con un compatto edificio per i servizi culturali: ne diventa così il bordo, quasi un recinto simbolico, che sembra trattenere per sempre la crescita della città.