Walt Whitman non avrebbe esitato a paragonarlo al canto di un tordo solitario. È lo squillo di tromba che risuona nelle caserme britanniche al calare del buio e che gli inglesi chiamano last post. A cento anni dalla prima guerra mondiale questa mesta fanfara preserva l’antico fascino, capace di pareggiare nell’immaginario collettivo la funzione sociale e politica del Cenotafio di Edwin Lutyens e della tomba del Milite Ignoto. Eppure, ancora solo nell’Inghilterra prebellica essa trovava spazio a celebrazione delle magnifiche sorti dell’Impero: così nel 1900, quando, a Hereford, furono eseguite le note di The Last Post,una pagina per coro e orchestra di Charles Villiers Stanford, su versi di William E. Henley. Ma nell’anno zero del nuovo secolo, questo richiamo militare scandiva davvero l’aurora di un nuovo sole o era, piuttosto, il preludio a una lunga notte? Si sa che la cifra tonda – quantomeno dall’evo medio in poi – farnetica di apocalittici scenari.
Una storia organica delle prefigurazioni individuali e collettive della Grande Guerra non è stata ancora scritta, ma, se lo fosse, uno dei riferimenti imprescindibili dovrebbe essere proprio questo commovente brano di musica. Neanche due decenni, infatti, e quella tromba avrebbe salutato per sempre un consistente numero di allievi del Royal College of Music che Stanford aveva contribuito a fondare.
Al di qua della Manica oggi i nomi dicono poco: ma Ernest Farrar, George Butterworth, Denis Browne, lo scozzese Cecil Coles, rappresentavano quella generazione di compositori che avrebbe dovuto ribaltare la pluridecennale opinione che faceva dell’Inghilterra una landa senza musica. È il misconosciuto novero dei musici-soldati: un battaglione che marcia discreto a lato dei più celebrati poeti di guerra. Alcuni si cimentarono nella composizione musicale sprofondati nelle trincee: balaustrate di musica che tramandano nostalgie di casa (e non di Patria), fra le quali affiorano i pentagrammi insanguinati di Coles, significativamente intitolati Behind the Lines; o alcuni songs per canto e pianoforte, sporchi di fango, di Ivor Gurney, un altro allievo di Stanford, che aveva contemperato l’interesse della poesia a quello della musica, prima di tornare a casa gassato dai tedeschi.
In buona sostanza, la musica come ribellione estrema all’inumano: a chi non viene in mente il canto strappalacrime della povera fanciulla tedesca del kubrickiano Orizzonti di gloria? Quanto al direttore d’orchestra francese Andrè Caplet, anch’egli vittima dei gas, ebbe l’ardire di scrivere un pugno di composizioni sul leggio di un piano smontabile che aveva faticosamente e amorevolmente portato in prima linea, col rischio sempre vivo, diceva l’amico Debussy, che una granata lo rendesse smontabile come il piano stesso.
In una società, quella inglese, sempre più secolarizzata, the last post, andando oltre gli steccati delle classi sociali, è ancora oggi un liturgico abbraccio, un canto in grado di cementare le coscienze nel segno dei trascorsi eventi bellici. Nondimeno, anche gli stendardi sono soggetti alle variabili del punto di vista: la bandiera può esser simbolo e può esser cruda realtà, o il whitmaniano canto di gola che sanguina. È su questa oscillazione che si sarebbero giocate le sorti dell’elegia musicale di guerra. Inni nazionali affiorano in innumerevoli pagine, seppur sbrindellati, bandiere lacerate o ammainate in pudico riserbo: talvolta imploranti un evo vergine, come l’alba dorata del Settecento musicale francese del secondo degli En blanc et noir di Debussy. E proprio il «Claude de France», il convinto nazionalista che con i personali versi del Noël des enfants qui n’ont plus de maison aveva incitato i bambini di Francia all’odio indiscriminato verso il nemico, proprio lui avrebbe caricato di ulteriore mestizia la Brabançonne della sua Berceuse heroïque per un libro di pura propaganda ideologica come il King Albert’s Book all’offeso re del Belgio. Né più allo stesso modo avrebbe risuonato lo haydniano Deutschlandlied nell’Ouvertüre patriottica per gli eroi tedeschidi Max Reger: viceversa, straziata come il canto di guerra di Goffredo Mameli nell’Elegia eroica e la Marseillaise nelle Pagine di guerra di un prostrato Alfredo Casella. Il simbolo, denudato, rivela la mistificazione di cui è vettore. Dunque, quando il pudore cominciò a gridare le sue ragioni, non un inno di patria trovò più posto fra le note dei compositori sopravvissuti alla grande carneficina. Gustav Holst, in memoria di Coles, preferì far levitare la whitmaniana ode alla morte per Lincoln su note di delicato misticismo; mentre Frederick Delius nel panteistico rito del suo Requiem non esitò a oscurare la fede in qualsiasi politica del lutto (a base religiosa o laica che fosse) commemorando tutti e solo gli artisti morti in guerra, senza ordine di nazionalità: che fosse il compositore australiano Frederick Kelly (ucciso nella penisola gallipolina) oppure il francese Alberic Magnard, che nel settembre del ’14, in quel di Baron, quaranta chilometri da Parigi, fu arso vivo nella sua casa, accanto al suo pianoforte, per aver resistito a un gruppo di soldati tedeschi che gli intimavano di abbandonarla.
A questo drammatico bollettino non resta che aggiungere gli inermi per eccellenza. Viene in mente il pianista e compositore spagnolo Enrique Granados, annegato con la moglie nel ’16 in seguito al siluramento tedesco del transatlantico Sussex nel canale della Manica. Lament (for Catherine),un breve pezzo per pianoforte di Frank Bridge per commemorare l’analogo affondamento del Lusitania il 7 maggio 1915, avrebbe potuto configurarsi anch’esso come un omaggio allo sventurato Granados, poiché nel nome di una bambina di nove anni (la Catherine del titolo) sono racchiusi tutti i volti degli innocenti: anche di quegli altri che, per uno stancante ripetersi della storia, hanno perso la vita su un volo di linea malese fra i cieli plumbei dell’Ucraina di oggi.