Sosteneva Anneo Floro, che la guerra impugnata da Spartaco risultasse tanto umiliante per Roma in quanto vicenda estranea: schiavi i soldati, gladiatori i comandanti. Secondo Giovanni Brizzi, ordinario di Storia romana presso l’Università di Bologna, essa avrebbe invece costituito l’ultima e organica rivolta dell’altra Italia, trincerata eternamente oltre la cortina di ferro dell’Appennino. Lungo il versante tirrenico, l’Urbe e le città; nella ridotta adriatica, il commonwealth delle transumanze, alleato dei greci e dei galli. Questa la trama dell’agile volume Ribelli contro Roma, edito da Il Mulino (pp. 232, euro 16).

ALLE RADICI della visione di Brizzi, la trasformazione di Roma da potenza peninsulare in impero mediterraneo e il conseguente cambiamento epistemologico della Res Publica. L’ascesa fu accompagnata dall’arrivo degli schiavi: i primi 300mila nel corso delle guerre puniche; quindi 150mila dalla Macedonia, 40mila dalla Sardegna e 50mila da Corinto; infine i 150mila Germani sconfitti da Gaio Mario nel 101 a.C. Gli uomini liberi persero il lavoro, la figura archetipica del contadino guerriero andò in crisi e le campagne si trasformarono in una polveriera, agitata da disperati educati alla ribellione da una cultura ellenizzata e organizzati in società segrete di stampo misterico.
Per quale ragione Floro ha torto e Spartaco non è un alieno? Perché le ribellioni sono il prodotto di una struttura storica basata su due Italie contrapposte, argomenta Brizzi. La prima era scoppiata nel 135 in Sicilia, guidata dallo schiavo Euno, un siriano con fama di sciamano. La seconda ancora sull’isola, tra 105 e 101, e anch’essa con un capo orientale: il cilicio Atenione. In seguito venne la guerra sociale, mossa dagli Italici per ottenere la cittadinanza sotto l’eloquente vessillo di un toro sannita che incorna la lupa romana. Proprio allora, e sulle montagne, nacque ufficialmente il nome Italia, quando i socii elessero a capitale Corfinium chiamandola Italica. È dunque sull’Appennino dei Marsi e dei Peligni, dei Picentini e dei Lucani, dove gettammo le basi di una Nazione, non nella pianura normalizzata dei Latini e degli Etruschi.

Durante la guerra sociale, così come al tempo di Annibale – Brizzi se ne è occupato in un precedente saggio, che ha dato spunto al reportage estivo pubblicato da Paolo Rumiz nel 2007 su la Repubblica – furono gli aristocratici a stare dalla parte di Roma, mentre i democratici parteggiarono per i suoi nemici, non disdegnando il reclutamento di schiavi. In buona o in cattiva fede: il favore degli Italici, qualora avessero potuto votare, avrebbe consentito il controllo sullo Stato.
Vinta la guerra nell’89, il senato e il popolo romano avrebbero dovuto mantenere la promessa, estorta dalla paura di ulteriori ribellioni, di concedere la cittadinanza agli sconfitti. Brizzi sottolinea però un dato: nel censimento dell’86/85, il numero dei cittadini salì soltanto da 395 a 463 mila.

IL VOLUME, aggiungendo a tale constatazione i drammi delle liste di proscrizione, degli espropri sillani e dei rovinosi scontri tra populares e optimates, spiega così la delusione capace di spingere l’altra Italia nelle braccia di Spartaco.
Qui subentra tuttavia un problema con le fonti antiche, che parlano di un esercito ribelle composto non da Italici, ma da Traci, Galli e Germani. L’idea di Brizzi è che ciò fu voluto per ridurre Spartaco a macchietta: uno schiavo circondato da barbari che desiderava semplicemente la libertà, traguardo minimo che tuttavia il trace non sembrò inseguire nelle due occasioni, a Modena e a Brindisi, in cui fuggire dalla penisola dovette sembrargli un gioco da ragazzi. Spartaco si è invece fermato a Eboli, quasi a segnare l’origine della questione meridionale.

I GLADIATORI evasi da Capua sono settanta. Potrebbero darsi al banditismo, invece iniziano a reclutare uomini. È la prima aporia. Non accolgono soltanto degli schiavi. È la seconda. Lo sfaldamento della struttura cantonale appenninica in seguito alla guerra sociale non vuol dire l’estinzione dell’odio individuale contro Roma. Marsi e Sanniti sono morti politicamente, eppure singoli mandriani marsi e sanniti si uniscono a Spartaco. Questi, nonostante inizialmente stravinca, non marcia su Roma perché capisce presto – lo ricorda Appiano – che «nessuna città aveva collaborato con lui». Il suo cruccio è togliersi la maschera pirandelliana di macchietta nella quale vogliono ingessarlo. Non ci riesce e si rintana rassegnato dove si sente compreso, sui monti del Sud, per tentare la sua Bolivia in Sicilia, ma i pirati cilici che dovrebbero traghettarlo si prendono gioco di lui. Nella primavera del 71 intuisce ormai che ha perso. Va così incontro al nemico in Lucania, tra Eboli e Paestum.
Sacrifica il proprio cavallo e cerca il duello con il ricchissimo Crasso. Muore trafitto dai nemici prima di raggiungerlo. Il suo corpo scompare, come successo a Enea e Romolo. Qui le fonti, che pure erano state bugiarde negando il coinvolgimento degli Italici, compensano con un epilogo eroico il leader sconfitto. Che in qualche modo vinse. Il censimento del 70/69 registrò 910mila cittadini. Gli Italici divennero romani, snaturandosi però per sempre.