Nell’aprile del 1990, negli Usa, la rete televisiva ABC mandò in onda Twin Peaks, la serie ideata da David Lynch e Mark Frost, per molti versi all’origine di molta di quella ampia produzione narrativa realizzata per il piccolo schermo che è uno dei fenomeni culturali più interessanti e prolifici degli ultimi vent’anni.

La sfida che lanciarono Lynch e Frost al tempo, era, infatti, quella di introdurre all’interno della sintassi televisiva (che Mark Frost conosceva molto bene, essendo già sceneggiatore di telefilm molto popolari) un linguaggio e dei contenuti ad essa tradizionalmente estranei, lavorando su una complessa stratificazione di livelli di lettura, mescolando generi, stili e registri (elemento, questo, caratteristico della filmografia di Lynch), usando ampiamente la più raffinata cultura cinematografica e letteraria americana, senza però la pretesa, o la velleità, di trasformare un prodotto televisivo in un prodotto cinematografico o letterario.

Anzi, la forza di Twin Peaks stava proprio nel fatto di essere un prodotto televisivo a tutti gli effetti, tanto che poi la versione cinematografica, prodotta sull’onda del successo della serie, fu un mezzo fallimento. Certo un prodotto alto, girato con sapienza, accompagnato da una colonna sonora, firmata da Angelo Badalamenti, evocativa ed indimenticabile, per cui bastavano le due note di apertura per portare lo spettatore dentro il clima perlopiù torbido, sotterraneo, doppio e non di rado angosciante che caratterizza il racconto delle indagini che l’agente federale Dale Cooper si trova a svolgere in questo paese idealtipico della provincia americana, scosso da alcuni fatti inquietanti successivi alla scoperta, dentro una sacca di plastica, del cadavere di una delle ragazze più popolari del paese, Laura Palmer.

La serie arrivò in Italia nel gennaio del 1991 e fu mandata in onda da Canale 5. Il 22 febbraio del 1991, subito dopo l’ultima puntata della prima serie, Beniamino Placido scrisse un bellissimo articolo per La Repubblica nel quale riconosceva a Twin Peaks la capacità di essere il ritratto più profondo e autentico dell’America; di un’America in cui l’ottimismo ostentato, la felicità necessaria e la fede cieca nel progresso sembra sostenersi su un fondo paludoso di paure ancestrali, coabitare con vicende torbide e angoscianti, producendo vie di fuga di pura irrazionalità. Twin Peaks, sosteneva Placido, è l’altra faccia della luna, quella faccia, cioè, che è perlopiù nascosta dietro ai muscoli, alle colazioni abbondanti e ai sorrisi a 32 denti, ma che è anche, per molti versi, il correlato di tutto questo. Viene da pensare a Twin Peaks e al bellissimo e lungimirante articolo di Placido vedendo in questi giorni su Sky Atlantic la serie HBO The Leftovers.

Una serie tratta da un romanzo di Tom Perotta (Svaniti nel nulla, edizioni e/o), sceneggiata dallo stesso Perotta insieme a Damon Lindelof, uno dei creatori e sceneggiatori di Lost. Perché anche qui, in The Leftovers, ciò che è a tema, con una radicalità che lascia talvolta senza fiato e con una immediatezza che altre forme narrative faticano a rappresentare con la stessa potenza, è l’altra faccia della luna, ovvero, per meglio dire, il buco nero dentro il quale sono costrette a muoversi le esistenze degli umani nel momento in cui si trovano faccia a faccia con un evento che ne mina l’orizzonte di senso, o l’apparenza di senso, dentro il quale si articolavano fino a quel momento le loro storie e dentro le quali le più diverse vicende e trame, individuali e sociali, si riconoscevano come dotate di significato.

Anche qui, come in Twin Peaks, il baricentro della narrazione è un paese della provincia americana, Mapleton, nello stato di New York; anche qui c’è un uomo sostanzialmente razionale e solido, il capo della polizia locale, Kevin Garvey, che pur con tutte le sue fragilità e i suoi fantasmi si trova a fare i conti con quanto di più lontano dalla razionalità cercando comunque di rimanere aggrappato a un qualche brandello di logica condivisa, all’interno di un mondo che fa di tutto per distruggerla e disintegrarla; anche qui, come in Twin Peaks, c’è la rappresentazione straordinariamente potente di un’adolescenza che è insieme innocenza e oscurità, bisogno profondo e vitale di significato e contemporaneamente esperienza della sua nientificazione.

Il vero fulcro narrativo attorno al quale si sviluppano le molte storie che si intrecciano in The Leftovers è però, appunto, il disperato tentativo di ridare senso all’esistenza in seguito a un evento che l’ha mandato in frantumi: la sparizione improvvisa, in un istante, del 2% della popolazione mondiale, di quasi un milione e mezzo di persone, esistenze svanite nel nulla in modo casuale; neonati e anziani, gente comune e potenti, delinquenti e persone per bene, religiosi e atei, senza un ordine riconoscibile, fuori da qualsiasi chiave di lettura condivisa, al di là di qualsiasi spiegazione in grado di disegnare una qualche, per quanto labile, traiettoria di significato.

Ne è prova l’inquietante comunità dei Guilty Remnant, i sopravvissuti colpevoli, che rappresentano la risposta forse più radicale, certo la più eloquente, di fronte all’evento. I Guilty Remnant si sono ritirati da tutto, vivono in una realtà dalla quale si cerca di bandire ogni colore, vestiti di bianco, dentro a costruzioni tutte ridipinte di bianco, fumando continuamente sigarette, quasi ad emblema dell’indifferenza nei confronti del valore della vita, rinunciando, per quanto aporeticamente, alla parola e alla voce e dunque alla pretesa di ragione, di logos, che esse necessariamente implicano, fuori da qualsiasi legame affettivo, sforzandosi di essere impassibili anche al dolore, e dunque al di là di quella ancestrale articolazione del senso che è la pietas.

In un mondo dove niente ha senso, dove il senso è stato fagocitato nel nulla, nulla delle vite che essi conducevano precedentemente può infatti avere un qualche significato. Ed è per questo che sono odiati e detestati dalla gente di Mapleton. Perché questi sopravvissuti, facendosi vedere fuori dalle loro case, dalle loro chiese e dai loro uffici, testimoniano del nulla di tutto e insieme lo evocano al mondo come una sorta di attrattore. È evidente che The Leftovers è una serie post 11 settembre, uno dei modi attraverso cui questa comunità spirituale che sono gli Stati Uniti d’America, questa comunità che tiene contraddittoriamente insieme il culto dell’innocenza e la consapevolezza della sua assenza, tenta di elaborare il lutto, di fare i conti, magari anche ideologicamente, con questa ferita indelebile e tremendamente dolorosa che continua a lacerarla e di portare a manifestazione i motivi profondi che stanno alle spalle delle diverse forme di risposta e reazione che quel popolo va producendo di fronte all’esperienza della catastrofe.

Ma per mostrare tutto questo The Leftovers va oltre l’11 settembre. Non solo la catastrofe è planetaria, ma la causa della catastrofe non ha un nome, non ha un padre, non ha un indirizzo. E finché c’è un nome, un padre, un indirizzo la catastrofe un qualche brandello di senso, per quanto farneticante e insopportabile, lo conserva. Qui la causa, l’origine, è letteralmente metafisica e in quanto tale del tutto impermeabile rispetto ai tentativi di ricondurla a un senso che trovi la sua collocazione nelle pratiche mondane degli esseri umani e dunque, ad esempio, nella politica, nella famiglia, nel lavoro o anche nella religione. La catastrofe metafisica mette in questione tutto, costringe a guardare il vuoto dritto nella sua assenza di sguardo, pone luce e buio sullo stesso livello, sgretola tutti i meccanismi spontanei e automatici che reggono le esistenze individuali e collettive degli umani.

E non è dunque un caso che anche qui, come già in Twin Peaks, l’adolescenza (vera ossessione del nostro tempo e, nei suoi aspetti più ambigui, uno dei protagonisti più efficacemente rappresentati dalla cultura cinematografica americana, si pensi ad esempio ad American Beauty) sia a un tempo la vittima più evidente della catastrofe, quella che deve davvero viverla, che deve sopportarla, che ne è consapevole e che deve reggerla senza nemmeno poter contare sulla nostalgia di una vita passata diversa, e contemporaneamente la possibilità di una qualche salvezza, la possibilità di un sistema di relazioni che, non avendo più nulla di solido a cui ancorarsi, deve inventarsi un senso che sia in grado di essere all’altezza della sua totale deflagrazione.