Il centrosinistra, come è stata un po’ frettolosamente definita l’alleanza fra i tre partiti della «maggioranza di Conte», si sta spappolando, dopo la nascita del governo Draghi, a velocità vertiginosa. A differenza della destra che è di giorno in giorno più pimpante. Non era detto che le cose dovessero prendere questa piega. Il blocco di Conte, con la sola eccezione della componente di LeU Sinistra italiana, si è trasferita tutta nella nuova maggioranza. A destra la spaccatura è stata ben più rilevante, col secondo partito della coalizione all’opposizione. Con 9 ministri del precedente governo presenti anche in questo una certa continuità è garantita.

Almeno dagli esordi, la politica di Draghi appare più vicina a quella di un centrosinistra moderato che non a quella di una destra sovranista. Sono stati ben più amari i bocconi somministrati alla Lega che però li ha inghiottiti senza fare una piega. Nei 5S, invece, l’emorragia non accenna a diminuire. Il Pd si sta armando per una guerra interna. Conte è desaparecido e il coordinamento tra i tre partiti si è limitato a un evanescente intergruppi al Senato.

Le ragioni di questo sgretolamento sono diverse ma convergenti. Per i 5S, che difettano da sempre di un’identità reale, i simboli identitari sono ovviamente ben più importanti, nella loro superficialità, di quanto non siano per un partito che può invece vantare un’identità solida come la Lega. Il Pd non è mai riuscito ad andare davvero oltre una federazione di aree e col tempo il morbo si è aggravato invece di guarire. Il peso di una disfatta come quella dei Responsabili non poteva infine restare senza conseguenze.

Tutto vero e tutto comprensibile ma l’origine principale del vicolo cieco nel quale si trova il centrosinistra, o comunque lo si voglia chiamare, va individuata altrove. I tre «partiti di Conte» avevano elaborato una strategia che non andava oltre il far perno non solo sulla presenza del medesimo Conte, cosa che politicamente sarebbe già un’enormità, ma sulla sua permanenza a palazzo Chigi sino al giorno delle elezioni. Solo da quella postazione l’ex premier avrebbe potuto costituire un valore aggiunto e presentarsi come «federatore» proprio in forza del suo non appartenere a nessun partito.

Solo disponendo di un Conte premier e ad altissima visibilità i tre partiti avrebbero potuto supplire alla mancata costruzione di un vero terreno comune presentandosi appunto come «la coalizione di Conte».

Uscito Conte da palazzo Chigi l’intera costruzione, del resto fatiscente, non poteva che venire giù, innescando processi di disgregazione a catena in tutti e tre i partiti della ex maggioranza. Ma queste cose succedono in politica, a maggior ragione in una politica un bel po’ dilettantesca come quella della ex maggioranza. Il vero limite clamoroso, tale da gettare una luce retroattiva sconsolante anche sulla esperienza precedente, sta nell’assoluta incapacità di reagire palesata da quei partiti.

Per un po’ si sono illusi di poter ancora contare su quella strategia, in realtà improponibile senza palazzo Chigi. Se anche Conte verrà paracadutato al vertice dei 5S in via di deflagrazione sarà comunque il capo di un partito in competizione elettorale con quelli alleati, dunque né una bandiera né un federatore.

Sarebbe dunque necessario fare quello che non si era saputo fare nell’anno e mezzo di governo. Costruire vigorosamente una coalizione politica che non abbia più come unico «punto di equilibrio» Conte, con l’attiva collaborazione dello stesso ex premier invece latitante. Sinora però su quel percorso non è stato mosso neppure un timido passo.