Sono partiti in una cinquantina alla fine di maggio da Lashkar Gah alla volta di Musa Qala, una delle roccaforti talebane nell’Helmad, a circa 130 chilometri da quello che è stato il cuore – un anno fa – della nascita di un vasto quanto fragile movimento pacifista dal basso che ha un solo obiettivo: il cessate il fuoco. Decisi a portare il messaggio di persona ai «fratelli talebani», alcuni marciatori del Movimento popolare per la pace – nato a Lashkar Gah nel marzo scorso e che ha già percorso il Paese in lungo e in largo – sono partiti in un assortimento davvero eterogeneo: vecchi settantenni e minorenni, gente sana ma anche ciechi. Ancora col digiuno imposto dal Ramadan e sotto un sole impietoso che scalda ogni giorno di più. Ma qualcosa è andato storto.

I talebani avevano messo in guardia che la marcia non era benvenuta, visto che è bollata, con scarso tatto politico, come un’emanazione dei servizi afgani e di quelli americani. Accade così che un gruppo di 25 fra loro viene sequestrato da una pattuglia di guerriglieri. Sequestrato? Il termine potrebbe essere inesatto perché secondo i più speranzosi sarebbe stato solo un prelievo volto a sapere cosa il gruppo aveva in mente e forse anche per discutere e sapere cosa ne pensa della tregua il governo di Ghani, che non ha dato molto credito ai marciatori ma con cui ci sono stati colloqui e forse condivisione di idee.

La verità è che nulla si sa della metà dei componenti della marcia tra i quali la guerriglia in turbante, bloccandoli prima dell’arrivo a Musa Qala, ha selezionato solo i più giovani, scartando vecchi e bambini. La preoccupazione è diffusa anche perché quella messa in guardia, con tanto di presa di distanza ufficiale dai pacifisti (già reiterata in passato) non promette nulla di buono. Ma è anche vero che il movimento sta trattando con gli americani e che il clima (non la guerra) è cambiato. Un conto è bollare i marciatori di collusione col nemico, un conto è sequestrarli per oscuri fini, magari punendoli con la morte. Un’esecuzione che farebbe il giro del mondo e, soprattutto, degli afgani che della vicenda sono informati da giornali e tv. Il tutto mentre a Kabul è polemica sulla decisione del presidente di liberare oltre 880 prigionieri tra cui diversi talebani. Non è il momento del pugno di ferro.

La guerra intanto va avanti con esplosioni nella capitale quasi quotidiane e battaglie nelle campagne. Le vittime non mancano. L’agenzia turca Anadolu ha fatto un po’ di conti: durante il mese di Ramadan – finito lunedì scorso – almeno 200 civili sarebbero stati uccisi dalla guerriglia. Il conto non comprende i morti fatti da forze governative e alleate. Una brutta situazione accompagnata dai negoziati a Doha e dal reiterato rifiuto talebano di una tregua e di parlare col governo. Se i marciatori possano riuscire nell’impresa è difficile da pronosticare. Ma potrebbero tornare a casa con un messaggio. Quale che sia, tutti sperano soprattutto nel loro ritorno a casa.