Solo uno sciocco, che nutra profondo disprezzo per gli esseri umani e per il principio fondante della democrazia, che è la sovranità popolare, può minimizzare la scarsa – e ormai scarsissima – affluenza elettorale. Una democrazia senza elettori è come una chiesa senza fedeli, un’attività commerciale senza clienti, una squadra di calcio senza tifo. Che il presidente del Consiglio, che è tutto fuorché uno sciocco, abbia disinvoltamente definito secondaria la crescita dell’astensione vuol dire solo che è in gran difficoltà e che, com’è nel suo carattere, piuttosto che ammettere un errore, nega l’evidenza. Che un politico di professione, impegnato in una durissima sfida di governo, reagisca pubblicamente in questo modo ci può anche stare. Può starci anche che qualche osservatore «di regime» l’assecondi. Ma non è un caso che gli osservatori più attenti, anche se simpatetici col governo, abbiano ravvisato nel risultato delle urne un grave motivo di allarme.

Il fatto che l’astensionismo sia un fenomeno diffuso e in crescita non solo in Italia non lo rende per nulla fisiologico. È vero, qualche politologo sostiene che gli elettori hanno di meglio da fare che recarsi alle urne. O fanno politica in altro modo, ad esempio nei ranghi della società civile. In realtà, se si considera che ad astenersi non sono sempre gli stessi e che l’astensionismo è fluttuante qualche altra spiegazione è forse più credibile e l’astensione è un segnale di sofferenza.

È un segnale di sofferenza, e una sanzione, per le politiche adottate dai governi. Che non da oggi sono fatte di tagli ai servizi pubblici e che, quasi ovunque, sono incapaci di contenere il declino quantitativo e qualitativo dell’occupazione, che con la crisi in atto si è drammaticamente accelerato. Al contempo gli elettori segnalano il fatto che i partiti non fanno più i partiti, cioè non curano più l’elettorato. Hanno piuttosto introdotto pratiche di oligopolio che consentono loro di salvaguardare i profitti, di cariche pubbliche e di potere, infischiandosene del consenso elettorale. Da un lato il finanziamento pubblico ha reso i contributi finanziari e di militanza degli iscritti superflui. Dall’altro le norme elettorali restrittive, o applicate restrittivamente, hanno ridotto a dismisura l’offerta politica. A destra, grazie ai partiti populisti, e dove i quattrini circolano comunque – magari sotto forme di forsennate campagne di stampa contro gli occupanti abusivi di case abbandonate – l’offerta politica è un po’ più differenziata. A sinistra ben di più. Ma, in sostanza, quando gli elettori si astengono, sanzionano consapevolmente la politica. È l’unica arma rimastagli.

Eppure, quel che è successo domenica non è affatto ascrivibile al trend astensionistico universale. Ha un significato ulteriore. Sei mesi or sono in Emilia Romagna avevano votato oltre due elettori su tre. Stavolta quasi due su tre si sono astenuti. In sei mesi il Pd ha perso metà dei voti. È logico supporre che siano in gran parte finiti nell’astensione.

La variabile interveniente, va da sé, è costituita da Renzi. Il quale, col suo messaggio seppur rozzamente innovativo, aveva sei mesi fa frenato – è legittimo supporlo – l’emorragia di consensi dal Pd, un po’ risvegliando l’orgoglio di partito, un po’ attraendo gli elettori di centro, abbandonati a sé stessi dopo il fallimento dell’accoppiata Monti-Casini alle politiche, un po’ attraendo pure elettori di centrodestra.

Se non che nel frattempo Renzi non pare aver retto, agli occhi dei suoi elettori, alla prova del governo. Togliamogli pure dal conto i disgustosi scandali e scandaletti che hanno investito il Pd locale. Restano le mosse, a dir poco discutibili, del governo. Gli oscuri patteggiamenti del Nazareno e le cosiddette riforme istituzionali. Con apprezzabile, benché tardiva, sincerità il sindaco Fassino ha ammesso che l’abolizione delle province è stata un errore. Speriamo adesso che qualcuno ammetta, prima che sia troppo tardi, che pure la riforma del senato – per com’è fatta – lo è. L’una e l’altra riforma sono fumo negli occhi, che è notoriamente dannoso. Incombe anche la riforma elettorale in gestazione: che è la più spregiudicata pratica oligopolistica che si possa immaginare.

C’è poi il modo in cui il governo si è sottomesso ai diktat europei. Seppur buttando parecchio altro fumo, non solo li ha subiti compiendo coi suoi tagli indiscriminati un ulteriore, lunghissimo, passo nel degrado dei servizi pubblici. Ma ne ha fatto anche motivo di un’ossessiva campagna contro il mondo del lavoro, aggredendo, oltre alle tutele che gli restavano, pure le sue rappresentanze sindacali.

Ebbene, poteva mai un elettorato di sinistra, per quanto moderato, com’è ancora in parte prevalente quello del Pd, accettare senza batter ciglio simili mosse? E poteva assistere passivamente alla mutazione di un partito che si richiama a due illustri tradizioni politiche – quella cattolica e quella socialista – nel seguito personale del capo, attorniato da una corte di yes-men allevati in batteria? Renzi in un articolo su Repubblica ha rivendicato la sua collocazione a sinistra. Ma ci vuole assai di più che un’appassionata letterina per mostrarsi di sinistra e persuadere gli elettori.