«Non abbassate i riflettori, siamo costantemente nel mirino». Così aveva detto al manifesto Omar Garcia, uno degli studenti scampati alla mattanza di Iguala: uno dei 43 normalistas delle scuole rurali di Ayotzinapa, scomparsi il 26 settembre del 2014 e tuttora al centro di ricerche e mobilitazioni nello stato del Guerrero.

Nel mirino era da tempo anche Miguel Angel Jimenez Blanco, leader della polizia comunitaria di Xaltianguis, una zona rurale del municipio di Acapulco, sempre nel Guerrero. Sabato lo hanno ucciso con un colpo alla tempia mentre era al volante del suo taxi. In uno dei fine settimana più sanguinosi del Guerrero sono state ammazzate quindici persone. Domenica, sono stati ritrovati i corpi di quattro uomini e di una donna, semisepolti alla periferia di Acapulco, sede dell’omonimo porto turistico nel Pacifico messicano, e ad altissimo tasso di violenza.

Nel 2013, per aiutare la popolazione stritolata dalla narcopolitica, Blanco aveva fondato la polizia comunitaria di Xaltianguis. Attualmente, insieme al gruppo che guidava, stava cercando le tracce di circa 300 desaparecidos, probabilmente sepolti in una delle tante fosse comuni clandestine nei dintorni della città di Iguala. Lì sono scomparsi i 43 normalistas, attaccati dalla violenza congiunta di polizia locale e narcotrafficanti mentre stavano raccogliendo fondi per una manifestazione nazionale. Subito dopo, la Union de Pueblos y Organizaciones del Guerrero (Upoeg) ha chiesto a Jimenez Blanco di appoggiare la ricerca dei famigliari e degli attivisti, che sono stati organizzati in brigate.

Il lavoro della polizia comunitaria ha consentito di scoprire nella zona una sessantina di fosse comuni. L’ultima, rinvenuta di recente, conteneva i cadaveri di 20 donne e di 109 uomini. Nessuno di loro, però, apparteneva ai 43 studenti. La notizia del macabro ritrovamento si era aggiunta a quella dei cinque corpi – il fotoreporter Ruben Espinosa e quattro donne – scoperti in un appartamento di Città del Messico con evidenti segni di tortura e violenza sessuale. Espinosa scappava da Veracruz, uno degli stati più violenti del paese, dove le aggressioni ai giornalisti non si contano.

Il fotoreporter era nel mirino del governatore Javier Duarte, sul quale anche una delle attiviste uccise insieme a lui – Nadia Vera – aveva condotto una video-inchiesta. Con la loro morte, sale a 13 il numero dei cronisti ammazzati a Veracruz, su un totale di 88 uccisi dal 2000. Il Messico del neoliberista Enrique Peña Nieto è un grande cimitero per l’opposizione sociale e per i senza-futuro, in balìa di mafie e miseria: secondo cifre ufficiali, circa 25.700 persone risultano desaparecidas negli ultimi anni, in maggioranza durante la presidenza Nieto, iniziata nel 2012.

Per Espinosa, come per i 43 studenti, è partita una grande mobilitazione internazionale, testimoniata anche dall’appello pubblicato domenica su questa nostra ultima pagina e sul sito: «Siamo tutti Espinosa, #MéxicoNosUrge». Un grido di rivolta contro l’arroganza del potere, finora impermeabile all’onda di grande cambiamento che ha trasformato il volto dell’America latina, dal Venezuela alla Bolivia, dall’Ecuador al Nicaragua: e che si sta avvicinando al Centroamerica, come indicano le grandi manifestazioni popolari contro la corruzione e l’impunità, in Guatemala e in Honduras. In questi giorni, i contadini colpiti dalle misure di austerità di Nieto e dalle conseguenze del vasto piano di privatizzazioni che ha investito il paese, sono di nuovo scesi in piazza: per chiedere l’abolizione del pacchetto denominato «Presupuesto Base Cero». Il governo ha però respinto le loro richieste, adducendo l’abbassamento del prezzo del petrolio.
Intanto, anche il governo colombiano – che a sua volta contende al Messico il triste primato delle fosse comuni e del paramilitarismo – ha chiesto che venga fatta chiarezza sulla morte di una sua cittadina, Mile Virginia Martin, una delle persone violentate e torturate insieme a Espinosa. Per i cinque assassinii di Città del Messico è stato arrestato un uomo con precedenti penali per violenza sessuale e la magistratura sembra orientata all’ipotesi della rapina. Una pista rifiutata dalle associazioni per la difesa dei diritti umani e la libertà di stampa, che denunciano un altro crimine di stato.

Nel Guerrero, i famigliari dei 43 hanno annunciato l’inizio di uno sciopero della fame e sono tornati a denunciare la politica del dividi et impera portata avanti dal governo, che sta offrendo forti somme come “risarcimento” per far cessare le ricerche. Per lo stato, i 43 sono stati uccisi e bruciati in una discarica di Cucula da un gruppo di narcotrafficanti a cui li aveva consegnati la polizia locale. Per le famiglie, sono invece probabilmente stati inghiottiti dalla macchina militare, che tortura, reclude ed elimina nelle caserme.

Una pista seguita anche da Angel Jimenez. Insieme a un manipolo di donne coraggiose, Jimenez accompagnava un gruppo di ricerca denominato “Los otros desaparecidos de Iguala” (gli altri scomparsi di Iguala). La sua morte ha suscitato grande commozione nella comunità. In un omaggio in rete, è stato definito «il mago di Oz, che ha aiutato la gente a trovare il coraggio di uscire a cercare i famigliari». Un «seme» che rischia di perdersi, sepolto nel terrore.