C’è da scommettere che Nasim Najafi Aghdam conoscesse le simpatie di Larry Page per i movimenti animalisti, nonché la sua moderata propensione vegetariana.

Il cofondatore di Google non ne ha mai fatto mistero, come con la sua partecipazione al Burning Man, l’happening che ogni anno riunisce nel deserto del Nevada artisti, hacker, esponenti delle controculture statunitensi e quello che rimane, con molti peli bianchi nella capigliatura, dei fricchettoni made in Usa.

E sicuramente aveva letto che nel Googleplex sono quotidianamente all’opera chef vegani.

Quello che Nasim Najafi Aghdam non poteva conoscere erano il business model e la policy di You Tube.

Nasim Najafi Aghdam era una performer di origini iraniane. Produceva video in favore dei diritti degli animali e diffondeva materiali a favore di uno stile di alimentazione vegano sui social network e sul suo sito.

Su YouTube i suoi materiali avevano una audience né troppo alta né troppo bassa. Poteva arrivare a due, trecentomila visualizzazioni.

Secondo le regole di affiliazione alla piattaforma di materiali video, il «postatore» di contenuti riceve una percentuale dei guadagni che la società di proprietà di Google guadagna sul traffico telematico riguardante i suoi video.

Ma la giovane performer di soldi da parte di YouTube ne ha ricevuti ben pochi. Per questo puntava l’indice verso l’azienda, affermando che la società censurava i suoi contenuti e la boicottava, pagando una miseria i click posti a favore dei suoi materiali e le visualizzazione delle sue immagini.

Denunce quasi sempre cadute nel vuoto. Al punto che si è presentata nella sede californiana, sparando verso tre dipendenti di YouTube per poi, come ulteriore disperato gesto di denuncia, togliersi la vita.

Non è dato sapere se il Nasdaq, così sensibile agli umori della folla che sciama in Rete, penalizzerà Google come nelle settimane passate ha penalizzato Facebook.

Sono però fatti diversi, stabilire connessioni non solo aumenta la confusione ma non aiuta certo a capire la tragedia californiana.

Quel che però emerge, stabilita l’impossibilità di trovare omologie tra lo tsunami che ha colpito Facebook e il suicidio di Nasim Najafi Aghdam, è che sono pur sempre due strade che portano entrambe al territorio denominato «capitalismo delle piattaforme».

Al di là dell’espressione usata, le piattaforme sono ormai un software che consente di gestire gran parte delle attività umane, sia che si tratti di comunicare, di consumare, di conversare in libertà, di distribuire manufatti culturali o presunti tali.

E se di Facebook ormai si sa di tutto e di più, YouTube è, dopo il successo iniziale, finita in un cono d’ombra di «vecchi» media tolte le volte che si scopre che fashion blog, folk singer, videomaker hanno milioni di visualizzazioni nel loro canale di You Tube.

A questo punto, scatta la solita lamentazione di discografici o produttori televisivi sulla responsabilità della rete nell’uccidere importanti settori economici e produttivi.

Omettendo, ipocritamente, che la Rete è stata un bacino al quale l’entertainment e tutta l’industria culturale hanno attinto per innovare cataloghi e prodotti.

La morte violenta della performer di ieri ha, come sempre più spesso accade, oltrepassato il confine tra la vita dentro e quella fuori lo schermo.

Le piattaforme tuttavia sono infrastrutture consuete della vita in società.

È ovvio che è venuta meno la differenza tra dentro e fuori lo schermo, nel senso che una cosa che accade in rete ha riverberi sulla strada e viceversa.

Con un elemento tuttavia di novità: mai come in questo lungo inverno del comune scontento, ogni attività economica che ha al centro l’«imprenditore di se stesso» deve urlare un lessico che sovrasti il rumore di fondo della comunicazione on line.

E così quella che è stata una faccenda di royalties insoddisfacenti, deve diventare anche una questione di censura.