La politica spagnola è di nuovo in fibrillazione. Se, qualche settimana fa, Sánchez celebrava lo storico accordo con Podemos per approvare insieme una finanziaria accettabile per gli elettorati rosso e viola, oggi si ventila la possibilità di elezioni anticipate. Addirittura «non si può scartare» che possano essere celebrate la domenica delle europee e delle mega amministrative, il 26 maggio, come ha specificato ieri il ministro delle infrastrutture José Luís Ábalos, braccio destro di Sánchez.

Sulla legge di bilancio il governo in pochi giorni è passato dall’ottimismo sull’approvazione, a parlare della proroga del budget 2018 del Partito popolare, come prevede la legge in assenza di finanziaria, con aggiustamenti ad hoc, per finire con il fantasma della chiusura anticipata della legislatura. Un’opzione sgradita a Sánchez che vorrebbe il tempo di approvare misure che sa essere molto popolari e che spianerebbero la strada a un futuro vero e proprio accordo di governo con Podemos. La finanziaria avrebbe permesso di approvare tutte le misure di colpo; lo stillicidio di decreti da approvare uno per uno è una strada sulla carta percorribile ma che potrebbe essere una corsa a ostacoli in una camera bassa (che è quella che conta) ancora controllata da Pp e Ciudadanos.

La minaccia di elezioni anticipate (che in assenza della legge sul bilancio chiede anche Podemos a gran voce) potrebbe essere tattica: Sánchez e Iglesias vorrebbero fare così pressione sui partiti catalani, la cui contrarietà ad approvare il budget ha bloccato i negoziati. Il rafforzamento di Ciudadanos o del Pp, con il loro discorso incendiario anticatalano o con i deliri sciovinisti del segretario del Pp Pablo Casado (che è arrivato a parlare di «Grande Spagna» e non di colonizzazione selvaggia dei popoli sudamericani), non conviene a nessuno. Ma la questione del processo contro i responsabili politici catalani, la maggior parte dei quali ancora in carcere o in esilio, pesa come un macigno su qualsiasi altra faccenda. Il governo pensava di aver alleggerito la tensione con una doppia mossa: da un lato chiedendo all’avvocatura di stato di abbassare le richieste di pena per i politici catalani responsabili del referendum indipendentista illegale, da «ribellione» a «sedizione» (pur sempre 15 anni), e dall’altra con il criticatissimo accordo con il Pp per l’elezione dei nuovi membri del Csm, che in Spagna sono eletti dal parlamento: i progressisti avrebbero la maggioranza, ma il presidente (che è anche capo del Tribunal Supremo) sarebbe un popolare. Il magistrato scelto per questo incarico sarebbe costretto quindi a lasciare il processo contro i catalani, e per un gioco di incastri, nello stesso collegio entrerebbe una magistrata progressista, nella speranza di ammorbidire il processo. Tatticismi, che nascondono quello che nessuno vuole ammettere: che si tratta di un processo politico, che le accuse rimangono gravi ed eccessive, che la Fiscalía (il pm che dipende indirettamente dal governo) continua a chiedere la pena massima, e che i principali leader catalani continuano a stare in carcere preventivo.

D’altra parte, far ordinare la scarcerazione o di ritrattare le accuse dei pm sarebbe ammettere esplicitamente che il processo è politico, con Ciudadanos e Pp pronti a saltare alla giugulare di Sánchez (che Casado ha già definito «responsabile di un colpo di stato»). Il processo a maggio non sarà chiuso e non è chiaro quanto questo pesi sulla decisione di Sánchez di convocare o meno elezioni. Tra due settimane si vota nella roccaforte socialista, l’Andalusia; dopo il quadro politico sarà più chiaro.