Né Pasok, né resurrezione. Per il Partito socialista spagnolo (Psoe) le elezioni di domenica sono l’approdo definitivo a una terra di mezzo che vale all’incirca il 25%: ugualmente lontano sia dagli abissi degli omologhi greci, spazzati via dalla scena politica ellenica, sia dai fasti del passato di Felipe González e di José Luis Zapatero. Di questi tempi, per la forza guidata da Pedro Sánchez si tratta di un risultato soddisfacente, nonostante i «buchi neri» alle comunali di Madrid (14%) e, soprattutto, Barcellona (9,6%). Un dato clamoroso, quest’ultimo, se si considera che i socialisti hanno governato la città dal 1979 al 2011.

Il risultato complessivo del Psoe non deve stupire. A marzo le elezioni in Andalusia avevano già mostrato che la caduta libera – iniziata nel 2011 con l’ingloriosa fine dell’esperienza di Zapatero – si era arrestata, anche grazie alla leadership carismatica della governatrice Susana Díaz. E domenica l’esempio andaluso si è riprodotto in un altro feudo storico come l’Estremadura (41,5%) e in una Comunidad come la Castiglia La Mancia (36,1%), da sempre in bilico fra centrodestra e centrosinistra.

Simbolicamente incoraggiante per i socialisti anche essere rimasti primi nelle Asturie (26,4%), più per i demeriti dei conservatori (divisi in due liste, Pp e Foro Asturias) che non per virtù proprie. In vista del voto politico di novembre, il segretario Sánchez si trova dunque a gestire un partito con dimensioni bersaniane quando avrebbe desiderato più comode percentuali renziane: ma l’era del 40% è definitivamente tramontata, e così la vecchia arroganza deve lasciare il posto alla disponibilità al confronto con i nuovi protagonisti a sinistra.

Scenari inquietanti di grosse Koalition in salsa iberica sembrano fuori dalle corde di Sánchez, la cui sfida dichiarata è ora quella di aggiudicarsi in una sorta di competizione amichevole la guida del variegato campo progressista: stando al mero dato numerico, sembrerebbe partire avvantaggiato su Podemos. In realtà, si tratta di un vantaggio assai dubbio, perché il risultato di Ada Colau a Barcellona, Manuela Carmena a Madrid e Joan Ribó a Valencia è tutto e solo vento in poppa per il movimento di Pablo Iglesias: nessuno dei volti-simbolo del cambiamento usciti dalle urne di domenica, infatti, è riconducibile ai socialisti, e questo «fattore-entusiasmo» non potrà non pesare nei prossimi mesi.

Meno incline ad accordi organici a sinistra sembra, invece, l’influente leader del Psoe andaluso: dalle dichiarazioni post-voto si coglie che la governatrice Díaz non esclude per il futuro nessuno scenario, nemmeno lo schema tedesco della «grande coalizione». Che sarebbe il più gradito a Berlino e Bruxelles, ma anche ai poteri economici di cui è portavoce il quotidiano El País e che si riconoscono ancora nell’intramontabile ex premier socialista González, arci-nemico dei «populisti amici del Venezuela», cioè Iglesias e compagni.

Se il Psoe, pur fortemente ridimensionato, ha comunque salvato la pelle, per l’altro soggetto storico della sinistra spagnola il discorso è diverso: la sopravvivenza di Izquierda unida come soggetto politico autonomo non è scontata. I laceranti contrasti interni degli scorsi mesi l’hanno danneggiata a tal punto che l’incubo di un’esclusione dal futuro parlamento comincia ad aleggiare: la legge elettorale spagnola danneggia le forze minori e il richiamo del «voto utile» a Podemos rischia di essere fatale per la formazione guidata dal giovane economista Alberto Garzón. A parte nella roccaforte asturiana (11,9%), culla del comunismo iberico, Iu ha raccolto percentuali che il prossimo autunno potrebbero non bastare per essere rappresentata alla Camera.

Garzón ha davanti a sé una missione quasi impossibile: riaffermare il senso dell’esistenza di Iu di fronte all’ascesa di Podemos. Impresa ancor più ardua dal momento che il partito di Iglesias sta ricollocando pienamente a sinistra il proprio messaggio («abbiamo recuperato il nostro discorso di formazione che rappresenta le classi popolari» ha scritto ieri il leader sul suo blog), anche in virtù della comparsa sulla scena dei Ciudadanos di Albert Rivera, giunti ad occupare lo spazio politico degli anti-casta «né di destra né di sinistra».

Difficilissimo che esperienze come la lista unitaria alle comunali di Barcellona possano riproporsi a livello nazionale: per arrivare a quell’esito, che forse Garzón in cuor suo gradirebbe, Iu dovrebbe passare attraverso un congresso che si trasformerebbe in una scontro all’ultimo sangue fra «partitisti» e «filo-Podemos», da cui probabilmente non uscirebbe vivo nessuno. Proprio come è accaduto per queste amministrative a Madrid, dove Iu rimane fuori sia dal consiglio comunale, sia dall’assemblea legislativa regionale. Lo scenario più probabile è dunque che Garzón a novembre cerchi di salvare il salvabile portando a casa almeno il voto dello zoccolo duro del vecchio e glorioso Pce (matrice di Iu), confidando nel fatto che alle politiche del 2008, nell’epoca dello Zapatero triunfans, un misero 3,7% garantì comunque due deputati. Magra consolazione, certo, in vista di un vero redde rationem interno dopo il voto autunnale, con il quale definire una volta per tutte il nuovo indirizzo strategico.