Il dibattito che segna la fine di un’epoca. Così la nuova leva politica ha definito il faccia a faccia di lunedì tra Mariano Rajoy e Pedro Sánchez. E in effetti questo è stato: il canto del cigno di un bipartitismo che il voto di domenica prossima relegherà in soffitta.

Doveva essere un confronto tra le due formazioni politiche maggioritarie, e invece si è assistito ad un dibattito monco, scollato dalla realtà politica del paese, trasfigurata dall’irruzione di Podemos e Ciudadanos. D’altra parte questo è stato l’unico confronto elettorale a cui Rajoy ha accettato di partecipare: un po’ per la sua indole immobilista e sfuggente, un po’ per paura di non reggere il confronto dialettico con Pablo Iglesias e Albert Rivera, pronti a mordere alla giugulare della vecchia politica. Non a caso al dibattito a quattro con Psoe, Podemos e Ciudadanos Rajoy ha mandato la numero due del Pp e vicepresidente del Governo Soraya Sáenz de Santamaría, molto più reattiva e sintonizzata col nuovo scenario politico.

Per il resto è stato un susseguirsi di apparizioni in salotti televisivi compiacenti in una campagna elettorale in stile americano, mediatizzata fino alla caricatura. L’altro ieri, però, dietro la solita cortina di fumo degli slogan imparati a memoria, lo scontro politico è stato aspro e autentico. Scenario asettico, mediatore quasi impercettibile, e fuoco incrociato con Sánchez sempre all’attacco col coltello tra i denti al grido di «non menta agli spagnoli», e Rajoy sulla difensiva. Prevedibili i punti cardine del dibattito: il segretario socialista ha martellato sui tagli, sullo smantellamento dello stato sociale, e soprattutto sulla corruzione, vero nervo scoperto del Pp, che ha fatto vacillare il presidente del governo in varie occasioni.

Dal canto suo, Rajoy ha fatto leva sul mito del salvataggio scongiurato grazie all’austerità (anche se il paese ha ricevuto dalla Ue fondi per salvare il settore bancario), su una presunta ripresa del mercato del lavoro (alimentato da un precariato ormai endemico: il 90% dei contratti firmati da luglio 2015 sono a tempo determinato e il 25% durano meno di una settimana), e sulla crescita economica, gonfiata da questioni congiunturali e da un ottimismo che esiste solo nei cartelli elettorali del Pp e che durerà lo spazio della campagna.

Meno prevedibile, invece, che il discorso scivolasse sulla china dell’insulto personale. Sánchez, galvanizzato dalla vulnerabilità del premier sul terreno della corruzione ha consegnato una perla agli annali dell’aneddotica politica spagnola: «una sua vittoria avrebbe un costo enorme per la democrazia, perché il presidente del governo dev’essere una persona onesta e lei non lo è», alludendo ad una possibile implicazione del premier nel giro di tangenti che ha macchiato la legislatura.

Silenzio. Costernazione. Risposta di Rajoy: «Basta così. Lei perderà le elezioni, e da una sconfitta elettorale ci si può riprendere. Ma non da questa frase vile che non accetto. È stato, meschino, disprezzabile e miserabile». Un anatema che ha buone probabilità di realizzarsi, in caso di débâcle del Psoe. Se Sánchez dovesse diventare l’uomo del tracollo socialista, verrà senz’altro ricordato più per «aver detto a Rajoy ciò che milioni di spagnoli pensano», che per la sua incolore carriera politica.

Pablo Iglesias e Albert Rivera hanno osservato, preso nota, e sorriso del chiassoso spettacolo della decadenza della diarchia Pp-Psoe. Sapevano, come quasi tutti, che nonostante l’affanno di Rajoy e Sánchez, il futuro politico del paese non poteva decidersi in quello studio televisivo, con una lotta tra due dinosauri. Quanto prima i vecchi partiti sapranno rendersene conto (e su questo Rajoy ha più strada da fare rispetto a Sánchez), tanto più prontamente riusciranno a gettare le fondamenta per costruire qualcosa di nuovo (e di buono) sulle macerie del sistema. Altrimenti non resterà che assistere, come ha detto Iglesias a commento del dibattito, allo spettacolo del «bipartitismo che agonizza nel fango».