A venti giorni dalle elezioni, il clima politico in Spagna comincia a diventare incandescente. Le tre settimane più calde di campagna elettorale le inaugura El País, con un inedito dibattito online fra i tre principali candidati: Albert Rivera, leader dell’ascendente partito Ciudadanos, Pablo Iglesias di Podemos e Pedro Sánchez, il candidato dei socialisti.

Mariano Rajoy manda a dire che lui sarebbe andato solo ai «dibattiti di sempre» – cioè unicamente contro Sánchez – e Alberto Garzón, candidato di Unidad Popular/Izquierda Unida, è ormai snobbato da tutti i media e punta sulla campagna porta a porta e online per parlare dell’esteso programma del suo partito che ha presentato proprio ieri (per recuperare, il giornale ha pubblicato un’intervista video solo con lui).

Ormai i fuochi mediatici sono tutti sui tre giovani contendenti.

I sondaggi attribuiscono a Pp, Ciudadanos e Psoe più o meno la stessa percentuale di voti (tra il 22 e il 25%), anche se molti sondaggi danno il Pp comunque un po’ sopra gli altri due, ma il margine di errore è davvero altissimo perché è la prima volta che ci saranno più di due partiti a contendersi il primo posto e i parametri per calibrare i sondaggi sono abbastanza arbitrari.

Secondo i numeri , se Podemos avesse unito i suoi voti a quelli di Izquierda Unida a livello nazionale (ci sono alcuni accordi locali, ma Iglesias ha detto no a un accordo strutturale) potrebbe giocare la partita molto vicino agli altri tre. Ora invece viene dato intorno al 15%. Izquierda Unida sembra rimarrà sotto il 5%.

A parte la giovane età degli aspiranti presidenti e il dibattito online senza gli abituali vincoli di tempi e spazi, sono state varie le novità del lungo dibattito di quasi due ore.

Per esempio, il tono informale. Niente «lei» istituzionale, un tripudio di Pablo, Albert, Pedro; la cravatta la portava solo Rivera, Iglesias non aveva neanche la giacca.

E poi una chiara strategia comunicativa «liquida», adatta ai tempi e che riflette un paese profondamente diverso da quello che 4 anni fa suo malgrado incoronò Rajoy con probabilmente l’ultima maggioranza assoluta che vedranno le Cortes di Madrid per molti anni.

In vari momenti del dibattito, tutto sommato vivace e senza errori madornali da parte di nessuno dei tre, Rivera e Iglesias si alleavano metaforicamente nel cercare di dipingere il Psoe come rappresentante del vecchio bipartitismo; in altri momenti l’alleanza era fra Psoe e Podemos per far emergere Ciutadanos come partito di destra; infine Sánchez e Rivera si strizzavano l’occhio di tanto in tanto per isolare l’estremismo, secondo loro, di Iglesias e delle sue alleanze locali con forze nazionaliste.

La realtà è che tutti e tre hanno saputo parlare molto bene ai propri elettori: Rivera, avvantaggiato dall’assenza di Rajoy, per consolidarsi come uno statista ragionevole e moderato, che ha chiesto accordi fra tutti i partiti su temi chiave come l’istruzione, le pensioni o la forma di stato – qui un tema particolarmente delicato; Sánchez per rivendicare un pedigree politico di un partito socialista che ha già governato, snocciolando tutte le leggi di cui sono più fieri (quasi tutte in campo sociale e adottate dalla prima legislatura Zapatero); e infine Iglesias che, oltre ad aver parlato chiaramente agli elettori socialisti delusi («quello che dicono in campagna elettorale non è poi quello che fanno al governo»), è riuscito, pur con molta moderazione, a inserire nel dibattito temi scomodi, come il suo no alla guerra in Siria, per la quale chiederebbe il parere dei cittadini, o la disposizione a celebrare il referendum di autodeterminazione dei catalani, praticamente un tabù nella politica spagnola.

La sensazione generale era che tutti e tre sono perfettamente coscienti che i giochi sono aperti, e che finiranno per avere bisogno gli uni degli altri il giorno dopo le elezioni.

Rajoy, il convitato di pietra, ha perso un’occasione importante, è vero. Ma la sua assenza, comunicativamente disastrosa, ha anche un senso: la distanza abissale che ci sarebbe stata fra lui e gli altri tre leader, anche da un punto di vista visivo, sarebbe stata incolmabile persino per un politico meno ingessato di lui.

La sua strategia però non cambia. Lunedì in un dibattito stavolta televisivo manderà la giovane vicepresidente Soraya Sáenz de Santamaría, la sua migliore parafulmini, forse la migliore politica del suo governo. Molti ci leggono un segnale: dopo le elezioni potrebbe proprio essere lei la figura chiave nel partito. E magari essere a capo di un governo di coalizione senza la scomoda e logora figura dell’«anziano» Rajoy.

 

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