L’esplosione del delivery grazie alla pandemia ha reso ancora più evidente la legge della giungla su cui si regge – e prospera, a spese dei diritti e delle condizioni di lavoro dei rider – tutto il settore, rendendo più pressanti le richieste di regolarizzazione.

La nuova legge entrata in vigore ieri in Spagna tenta di porre un freno proprio agli abusi da parte di aziende che, sfruttando il vuoto normativo, il cottimo e il dominio assoluto esercitato dall’algoritmo su migliaia di falsi autonomi, hanno ridotto al minimo i costi, incrementato i profitti e flessibilizzato al massimo il rapporto di lavoro.

Prima ancora delle Cortes sono stati i tribunali spagnoli e gli ispettorati del lavoro a stabilire che i repartidores sono dei lavoratori dipendenti a tutti gli effetti, mettendo a nudo l’obsolescenza dello Statuto dei Lavoratori soprattutto nella versione mutilata dalla controriforma del 2012.

In attesa del testo che verrà licenziato nei prossimi mesi dal parlamento, un decreto legge, emanato dall’esecutivo Sánchez per accelerare i tempi e approvato l’11 maggio dalla maggioranza, interviene proprio sullo Statuto dei Lavoratori, affermando in particolare la «presunzione di dipendenza» per tutti i rider (non solo per quelli della ristorazione). Il testo stabilisce infatti che essi debbano essere considerati lavoratori dipendenti a meno che non si possa dimostrare il contrario, e che in quanto tali gli vengano garantiti assunzione, salario, previdenza, riposi, ferie e malattia.

La ley rider riconosce inoltre il diritto delle organizzazioni sindacali e dei comitati di impresa di conoscere i parametri di funzionamento degli algoritmi impostati dalle aziende.

Le imprese, pur avendo avuto tre mesi per adeguarsi, non hanno accolto bene quella che considerano un’indebita ingerenza del governo in un settore in piena espansione, sostenute dalle destre, con Vox e il Partido Popular che hanno presentato ricorso al Tribunale Costituzionale. Secondo uno studio realizzato nel 2020 per conto di A Digital, d’altronde, quasi 65mila imprese del settore food – più di un terzo del totale – impiegano in tutto il Regno circa 15.300 rider.

La reazione più violenta è stata finora quella di Deliveroo che, già oggetto di un pronunciamento ostile del Tribunale Supremo a maggio, ha annunciato l’avvio a settembre delle procedure per la cessazione di ogni attività in Spagna. Fino a quel momento la multinazionale britannica, infischiandosene della nuova legge, ha comunicato che i suoi rider «continueranno a lavorare con le attuali modalità di prestazione di servizi come autonomi».

Glovo, invece, promette di assumere il 20% dei fattorini, mantenendo però il resto nella stessa condizione attuale anche se «in conformità con la legge». Uber Eats intende subappaltare a imprese terze l’assunzione dei rider di cui si è servita finora. Solo Just Eat e altre aziende minori hanno affermato di voler riconoscere il carattere dipendente del rapporto di lavoro con i propri repartidores e si preparano a negoziare il primo contratto collettivo con Ccoo e Ugt.

Mentre in sette città iberiche si fanno strada le cooperative etiche di rider che tentano di rappresentare un’alternativa al tritacarne delle grandi catene, il rischio è che finte cooperative formate da “lavoratori autonomi” ma create per conto dei grandi marchi aggirino la nuova normativa ricorrendo alle esternalizzazioni. I sindacati accusano già Uber e Glovo di aver avviato il meccanismo e chiedono al governo un impegno concreto per punire gli illeciti, a partire dalla «cessione illegale di lavoratori».