In Spagna le cose cambiano, ma meno del previsto. E il bipartitismo non è morto. A queste conclusioni sono giunti molti commentatori, dopo le elezioni in Andalusia dell’altro ieri. Il motivo? A vincere è stato lo storico Partito socialista (Psoe), al potere da oltre 30anni nella regione, e a classificarsi secondo è stato l’eterno rivale conservatore, il Partido popular (Pp) del premier Mariano Rajoy, mentre la novità Podemos ha raccolto «solo» il 15%.

È vero: i numeri sono quelli, ma un’analisi più approfondita del voto nella più popolosa Comunidad autónoma del Paese iberico permette di trarre conclusioni diverse. Più incoraggianti per le forze che si battono per il cambiamento. Vittoriosi sono stati senza dubbio i socialisti (35,5%), trascinati dalla carismatica governatrice uscente, la 40enne Susana Díaz, che ha annunciato ieri la sua intenzione di guidare un esecutivo di minoranza: nessun patto di governo con altri, ma alleanze variabili sui singoli provvedimenti nel parlamento regionale. Con 47 seggi su 109 non è una missione impossibile.

Il successo del Psoe andaluso è netto, ma è tale solo in virtù del crollo del Pp (26,8%), che ha perso ben 14 punti rispetto alle elezioni di 3 anni fa. Preso in sé, il dato dei socialisti è il peggiore di sempre: il minimo storico precedente era il 38,7% del 1994. In termini assoluti, la lista guidata dalla governatrice Díaz ha visto ridursi la somma di voti di circa 120mila unità rispetto al 2012, pur essendo aumentata l’affluenza (alle urne in 4 milioni, Il 64% del censo, +2%). Quello del Psoe resta, naturalmente, un exploit degno di nota, che dimostra come il radicamento dei socialisti nella regione meridionale regga l’urto di scandali e disaffezione. Ciò che vale nel voto amministrativo in Andalusia, però, non può essere proiettato sul piano nazionale.

In primo luogo perché alla tenuta del Psoe andaluso fa da contraltare il disfacimento dei socialisti in Catalogna, in corso da tempo: è un elemento decisivo, dal momento che la regione di Barcellona è la seconda storica roccaforte del partito. Il Psoe di Felipe González e José Luis Zapatero vinceva le elezioni grazie ai «granai» andalusi e catalani: poter contare su uno solo non basta. C’è poi un altro elemento-chiave: la leadership. Nella regione di Siviglia e Granada domenica ha vinto un Psoe a trazione Díaz, figura molto più popolare del segretario nazionale Pedro Sánchez: giovane e «guapo», ma senza mordente.

Non è un caso che i sondaggi per le politiche del prossimo autunno vedano il Psoe inchiodato al 20%. Il successo della governatrice andalusa rappresenta quindi, in realtà, anche una grana, perché di fatto riapre un discorso teoricamente chiuso: quello del candidato premier. Tutti sanno – a maggior ragione dopo il voto di domenica – che Díaz farebbe molto meglio di Sánchez, ma nel partito nessuno per ora lo dice: sono da attendersi turbolenze nella vita interna del Psoe nei prossimi mesi.

L’altro protagonista del sistema bipartitico al tramonto, il Pp di Rajoy, è crollato, perdendo per strada quasi un terzo dei consensi. E tuttavia, poteva andargli peggio: se non è precipitato a percentuali ancora più basse (a livello nazionale recenti sondaggi lo vedono sotto il 20%) è perché in Andalusia può vantare, a differenza del Psoe, «le mani pulite», non avendo mai amministrato la regione. Ma a livello nazionale questo discorso non vale: proprio ieri il giudice istruttore Pablo Ruz ha chiuso le sue indagini sulla gigantesca tangentopoli che vede come principale imputato l’ex tesoriere del partito Luis Bárcenas, ed è giunto alla conclusione che il Pp abbia avuto per anni una contabilità parallela di enormi dimensioni, finalizzata al finanziamento illecito del partito e all’arricchimento privato dei suoi esponenti. Nel partito c’è maretta, ma la sfinge Rajoy tira a campare, sperando in un «pareggio» in autunno e nelle larghe intese «contro gli estremisti».

Al debutto in un voto amministrativo, Podemos ha ottenuto un buon risultato. Non eccellente, come hanno riconosciuto ieri i suoi dirigenti. Ma nemmeno demoralizzante: per un partito neonato, la prova locale è molto più difficile. Non solo: trattandosi di elezioni anticipate, il movimento guidato da Pablo Iglesias in Andalusia è stato preso un po’ in contropiede, nel momento in cui stava cominciando a darsi una struttura territoriale. In vista delle amministrative di maggio e delle politiche di novembre, dunque, nulla è compromesso.

Notevole irruzione in scena anche di Ciudadanos (9%), che di Podemos è la versione moderata e «borghese»: stesso discorso «anti-casta», ma silenzio di tomba sull’austerità. Forza con radici nell’opposizione all’indipendentismo catalano, espressione di una classe media laica e centrista, Ciudadanos pesca voti ovunque, grazie all’abilità del suo leader, Albert Rivera: potrebbero essere l’ago della bilancia in autunno. Si conferma in crisi, invece, Izquierda unida (6,9%), che arretra di quasi 5 punti e si trova relegata al ruolo di gruppo più piccolo nel nuovo parlamento di Siviglia: «È stata punita la nostra partecipazione al governo regionale nella scorsa legislatura», ha commentato il suo capolista. Di fronte al neoleader Alberto Garzón il compito non facile di serrare i ranghi in vista della decisiva prova d’autunno.