«Quello che sappiamo degli effetti di microplastiche e microfibre tessili è che non sono biologicamente inerti: quando penetrano negli organismi marini, osserviamo effetti di modulazione del sistema immunitario, dei sistemi riproduttivi, del metabolismo, e persino sulla capacità di predare».

Chi studia gli effetti delle microplastiche, come il professor Francesco Regoli, docente di Tossicologia all’Università Politecnica delle Marche e coordinatore del progetto «Ephemare», sa che non provocano effetti tossici acuti nell’immediato, ma non può nemmeno escludere che non producano effetti nocivi nel lungo termine. Di certo, servono ulteriori ricerche.
I monitoraggi effettuati negli ultimi anni dicono che l’esposizione a microplastiche e microfibre è un fenomeno che si verifica ovunque: tutti i mari analizzati nel progetto Ephemare-JPI Oceans (Mediterraneo, Baltico, Atlantico e Caraibi) dal 2015 al 2018 hanno rivelato presenza di plastica in media nel 30% degli organismi campionati, ma ci sono zone dove il dato arriva al 100%. La situazione del Mediterraneo appare particolarmente preoccupante perché è un mare chiuso dove il gioco delle correnti fa entrare anche le plastiche dell’Atlantico ma non fa uscire quelle presenti nel mare nostrum.

«Siccome non è ipotizzabile rimuovere queste microplastiche dai mari, gli organismi marini vi sono esposti in maniera ormai cronica e quindi gli effetti vanno valutati nel lungo periodo», dice Regoli.

Nei pesci vengono trovati in media 1 o 2 frammenti di microplastiche, e molte più microfibre, da 4 a 10 unità. «Sono localizzate per lo più nello stomaco, e in gran parte vengono eliminate, ma sappiamo che alcune possono essere trasferite nei tessuti, e soprattutto le microfibre possono rimanere intrappolate nell’organismo perché sono più piccole e più difficili da espellere e i loro effetti variano anche a seconda della dimensione e della forma».

Inoltre, microplastiche e microfibre possono diventare vettori di sostanze tossiche, o perché le contengono (per esempio i coloranti e fissanti dei tessuti) o perché le assorbono nell’ambiente per poi rilasciarle quando penetrano nei tessuti degli animali. «Certo, non rappresentano la principale fonte di esposizione a sostanze tossiche – precisa Regoli – in termini quantitativi non sono una fonte importante, però dobbiamo considerare che combinano un effetto chimico ad un effetto fisico-meccanico, che può cambiare i tessuti». La presenza di un frammento di plastica, per quanto di dimensioni microscopiche, è a tutti gli effetti un corpo estraneo all’organismo che può attivare il sistema immunitario con effetti che ancora non è facile prevedere, anche considerando l’interazione con altri fattori di disturbo presenti nel mare, come l’acidificazione, l’aumento della temperatura e gli altri inquinanti tossici.

Inevitabilmente, microplastiche e microfibre sono già entrate nella catena alimentare: se nei pesci i frammenti vengono localizzati prevalentemente nello stomaco, che scartiamo, nei molluschi e nei crostacei si trovano nella parte che mangiamo.

«Non ci sono prove che rappresentino un rischio sanitario – tranquillizza Regoli – del resto le microplastiche sono presenti ovunque, anche nell’aria che respiriamo. Però, il fatto che non costituiscano un problema sanitario immediato per l’uomo non deve farlo sembrare una questione meno importante: rimane un problema ambientale che non ci possiamo permettere di trascurare. Vorrei ricordare che ci abbiamo impiegato 20 anni a capire quanto fosse tossico il Ddt».