Delle sedi espositive della Galleria Laocoonte due almeno sono situate in dei crocevia di memorie. Una, la più ampia, si trova infatti in via Margutta, una seconda nella non lontana via del Babuino; la terza ha invece sede nella più riposta via Monterone. Da alcuni anni la galleria si dedica alla riproposta di artisti italiani del Novecento: nelle sue sale si sono succeduti i lavori di Grassi, Brunelleschi, Cambellotti, Leoncillo, Cagli, Maccari, con un’attenzione particolare ad alcuni cicli d’opere come il Libro delle Ombre di Alberto Martini o Alle cinque da Savinio, composto da trentanove disegni di Fabrizio Clerici.
Oggi la curatrice Monica Cardarelli propone una personale dello scultore Andrea Spadini (1912-1983), la prima dal 1989, anno della mostra a lui dedicata da Vincenzo Mazzarella. Si tratta di ottanta sculture in vario materiale (marmo, bronzo, terracotta, maiolica smaltata) e di circa altrettanti disegni. Razionalmente distribuita per periodo e genere di composizione nelle sue tre sedi, l’esposizione ci permette di seguire Spadini fin dai suoi primissimi lavori, anzi fin dal primo che è un disegnetto Composizione con pesci (1922) fatto all’età di dieci anni. Queste sue nugae, eseguite sotto il magistero del padre Armando, rivelano l’educazione rigorosa e precoce fatta di copie fedeli dal vero. In via Monterone si vedono studi di volti umani, modellati dalla matita con ferma finezza di chiaroscuro negli anni venti, ma anche schizzi, realizzati nello stesso periodo, di gatti, galline, anitre, ciuchini che ritroviamo nelle altre due sedi già frammisti ai ricordi della magnificenza di Roma e dell’arte dei maestri.
Questi ricordi, sia chiaro, vennero sempre declinati da Spadini in trastullo giocoso sicché accanto al Bernini, che è il modello evidente tanto di sculture come Inverno (1946), ispirato dall’Apollo e Dafne, quanto dei piccoli bronzi dedicati ai Fiumi, si affaccia sempre l’ombra del Settecento minore, di un Jean-Baptiste Pillement, per esempio. La sua memoria fu certo vasta, come testimoniano le opere in esposizione: lo Studio per le Stagioni (1954) deriva dall’Arcimboldo, il disegno del Moro con obelisco spezzato (1956) ricorda gli affreschi della Sala dei Giganti di Giulio Romano, gli Studi per la scimmia sulla balaustra, gremiti di quadrumani vanesi, sono debitori di Chardin.
Tra i moderni è evidente la sua affinità con Clerici (particolarmente in ciò che questi riprende da Grandville) e con Fornasetti dei quali fu amico. I riferimenti all’antico, svuotati di tensione drammatica, sono per lo più intesi come scherzevole e colta arguzia: il suo Lazzarone napoletano (1958), ad esempio, in terra bianca, concepito originariamente come sostegno di una consolle per Gaspero del Corso, è un ricordo ironico del Fetonte (1636) di Rubens (mediato forse dalla copia di De Chirico del 1954) nel quale l’oro solare si è trasformato in quello zecchino appena furato dal ladroncello; l’Inverno stesso è una reviviscenza berniniana che allude motteggiando al mito metamorfico e stagionale dei due gruppi scultorei esposti alla Galleria Borghese, cioè l’Apollo e Dafne appunto e il Ratto di Proserpina.
Le committenze americane, alle quali lo scultore giunse per tramite della Galleria L’Obelisco, dovettero particolarmente apprezzare, pur non dovendone capire molti dei sottintesi, questa disinvoltura giocosa con la quale Spadini trattava l’immaginario dell’arte antica: le sue opere finirono a Hollywood acquistate da Lauren Bacall, Henry Fonda e Douglas Fairbanks jr. Sempre a ricche committenze furono destinate le sue statuine di bronzo e maiolica che rivelano una spirituale adesione a un mondo aereo e fluttuante fatto di amache e piroghe leggere. I motivi ripetuti di funamboli e giocolieri sono evidenti riprese di modelli tiepoleschi ma senza quel che di caustico e notturno c’è negli originali.
Passeggiando per le sale di via Margutta ci si accorge di essere in un teatro (e in effetti Spadini ne ideò uno per la casa di Alberto Sordi del quale è esposto il modellino) o meglio in un piccolo teatrino, come una ribalta nella quale, tuttavia, a differenza che nei teatri barocchi, non vengano mai rappresentati drammi. E questa impressione di piccolo teatrino è confermata da quel tanto di vulnerabile e scenografico che permane anche nelle opere di maggiore grandezza. Può dirsi insomma che, nei confini di un’arte edonistica e giocosa, Andrea Spadini abbia realizzato opere d’eccellente fattura (il suo spiccato senso plastico è visibile fin dai suoi primissimi disegni) e di copiosa e vasta fantasia. Marcello Fagiolo paragonò le sue creazioni a quelle di Fellini e non può negarsi che se da quel grande orologio di animali musicanti che egli concepì per il Central Park di Manhattan sgorgasse una partitura di Nino Rota, non ci si stupirebbe poi molto.