Nel concorso delle Giornate degli Autori 2020, nell’ambito della settantasettesima Mostra del Cinema di Venezia, i gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio presentano il loro nuovo film, Spaccapietre, un’epopea tragica in minore che mette al centro la figura di un padre e di un figlio che perdono la donna per loro più cara e precipitano nell’inferno dei braccianti a giornata vessati da caporali e padroni deformati dall’avidità.

Un’opera seconda che – come già il precedente film Sette opere di misericordia – mostra la libertà coraggiosa di due giovani autori rigorosamente in cerca della loro cifra attraverso una scrittura visiva nutrita di riferimenti colti, di una coscienza politica autentica, di un istinto cinematografico umanistico e umanitario. Una conferma dell’originalità e dell’autonomia di due registi che pensano e vivono organicamente il loro ruolo dentro e non fuori del mondo, che fanno cinema non per costruirsi un’astrusa wunderkammer nella quale rintanarsi, ma come rischiosa esplorazione di sé attraverso il mondo.

Di seguito uno scambio con Gianluca e Massimiliano consumatosi, come sempre più spesso accade in questi giorni, attraverso lo schermo di un computer.

Questo è il film produttivamente più impegnativo, più complesso della vostra carriera. Soprattutto mi sembra ci sia un’inedita predilezione per inquadrature ampie, spazi aperti, set vasti contrariamente ai set dei vostri film precedenti, teatrali, chiusi, isolati l’uno dall’altro.
GDS: È vero, è il nostro film finora più complesso rispetto ai precedenti e in particolare al nostro unico film a soggetto, Sette opere di misericordia, dove c’erano praticamente due attori e due location. Questo ha più attori e parecchie location intersecate tra di loro nel racconto. C’è una separazione tra prima e seconda parte: la prima, principalmente centrata intorno al paese; la seconda, principalmente centrata intorno al podere. Al loro interno queste macro-location sono a loro volta suddivise in altri «angoli» che sono collegati in modo dinamico tra di loro grazie al montaggio. Dunque sì, più complesso e ovviamente più costoso.

MDS: Da quando abbiamo avuto l’idea di questo film ci è sempre sembrato un racconto che attraversasse più spazi. Anzi il ruolo di spazio inteso come territorio, come ambiente rurale e urbano insieme è sempre stato per noi il movimento nel film. L’idea del movimento sia della macchina da presa, sia delle emozioni e del sentire dei personaggi e poi soprattutto del paesaggio come specchio riflettente, come lente d’ingrandimento di questi movimenti era fondamentale. Ci siamo molto scornati, molto appassionati a dialogare tra di noi per dare forma plastica dell’idea del viaggio non inteso come road movie – questo non è un road movie – ma proprio come viaggio interiore che si fa anche viaggio nel paesaggio. Ci siamo detti fin dalla prima idea originaria – l’immagine del padre e del figlio incastonati dentro il loro paesaggio – che doveva essere un film in cui il paesaggio non doveva essere interiore come lo era in Sette opere di misericordia, ma al contrario doveva farsi umano. Il film è anche fondato sull’idea di attraversamento di tempi diversi: dalla morte di nostra nonna, nel 1958, è come se si fosse reincarnata in tutte le braccianti che abbiamo sentito morire nei campi negli ultimi anni, da quando abbiamo incominciato a leggere di queste cose, da quando l’informazione ha iniziato a passare. La riflessione sul paesaggio si è rivelata fondamentale anche nelle scelte su come costruire o ricostruire alcuni ambienti e su come fotografare i nostri personaggi dentro i diversi ambienti. La baraccopoli per esempio è tutta ricostruita.

GDS. Abbiamo scelto un posto dove c’erano i resti di un acquapark, una volta molto conosciuto e molto frequentato, e abbiamo deciso di costruirci dentro e intorno questa baraccopoli in modo filologico.

MDS: L’unica cosa artificiosa per governarne l’aspetto, per dare un segno estetico quasi astratto, assoluto, è l’inverosimile uniformità delle baracche, tutte costruite nello stesso modo. C’interessava il bianco e il trasparente del nylon che si usa per le serre perché poteva dare l’idea di diaframmi di luce.
GDS: Anche un po’ di fantasmi.

MDS: Quasi delle scatole fantasmatiche in cui si muovono le ombre. Abbiamo deciso di usare un formato grazie al quale si riuscisse ad abbracciare padre e figlio insieme e il paesaggio. Come se fossero una cosa sola. Per le scelte cromatiche, una delle ispirazioni del film è stata un quadro di Courbet, Gli spaccapietre. Più che per i colori, ci interessava il livello iconografico: ci sono un uomo e un ragazzino, uno vicino all’altro, che picconano il terreno cercando di spaccare delle pietre e sembra quasi che l’orizzonte sia occupato dai loro corpi, c’è quasi uno scambio tra corpo e paesaggio. Ci piaceva l’idea dei lavoratori assoluti e così abbiamo analizzato meglio il tipo di colore di questa specie di realismo di Courbet. Alla fine abbiamo deciso di mantenere una gradazione dal giallo al blu che s’incarna in questa specie di color mostarda che torna sia negli ambienti con luce artificiale sia in quelli con luce naturale.

Una scena di «Spaccapietre» con Samuele Carrino e Salvatore Esposito

GDS: Questo movimento nel paesaggio di cui parlavamo prima è da intendere non solo orizzontalmente – spostamento dal paese alla campagna – ma anche come movimento verticale. Il film è come se fosse una graduale discesa che per noi ha un valore archeologico. Il personaggio del bambino ci guida in questo scavo: i due partono dal paese che è arroccato in alto e dal quale si vede il paesaggio sottostante e poi scendono; e quando scendono c’è ancora un’altra dimensione che è sempre più sotterranea, che appartiene appunto a un passato atavico, a un desiderio, al sogno del bambino, cioè andare a disseppellire una realtà nascosta. Questo poi ha a che fare con la morte.
MDS: Il film per noi è un viaggio di sconfinamento tra vita e morte. Lo è perché così è il cinema, ma lo è anche narrativamente, perché il padre ha una promessa da mantenere al figlio, una promessa assurda. Proprio di questa assurdità vive il film: ti riporterò tua madre. Una promessa che ha a che vedere con un viaggio oltre la vita che solo un ragazzino può intraprendere con il suo sguardo. E un viaggio che solo un padre come quello può accompagnare.

Quanto tempo avete lavorato al film?
MDS: La prima idea è venuta quando, durante un viaggio in Ucraina, leggemmo l’articolo che raccontava della morte di Paola Clemente, se non sbaglio proprio sul Manifesto. Quindi direi dal 2016 al 2020. Abbiamo finito di girare nel 2019, poi c’è stata una lunga post-produzione tra Belgio, Francia e Italia. Il lockdown ha complicato un po’ le cose senza impedirci di arrivare fino alla fine.


In molti dei vostri film c’è questa specie di movimento trans-generazionale. In questo caso c’è in particolare la storia della nonna che vi portate dietro da tanto, divenuta ormai quasi una sorta di personaggio ricorrente.

GDS: Sette opere di misericordia è ispirato un po’ alla figura di nostro nonno materno. Spaccapietre unisce i due nonni paterni, la nonna che non abbiamo mai conosciuta era la mamma di nostro papà. Suo marito, il padre di nostro padre, faceva lo spaccapietre e veniva proprio da quelle zone.
Non siamo ricchi di famiglia. Devi avere una motivazione, un qualcosa che ti brucia dentro a livello inconscio, ma che poi la realizzazione del film porta a livello consapevole. Come se ti liberassi di qualcosa facendo i conti con quello che hai dentro. E nel nostro caso sono le esperienze raccontate dai nostri genitori sulla nostra famiglia che, come quelle di tante altre famiglie, sono di sradicamento.
Perché faccio questo lavoro? Per dare sfogo al mio narcisismo, al mio estro creativo, lo faccio perché voglio comunicare. Però c’è qualcosa di diverso in fondo, qualcosa di molto più urgente che è anche molto più difficile da spiegare. Qualcosa che forse ha a che fare con l’anima. Ho detto una parola un po’ altisonante. Col tempo diventa più consapevole. All’inizio magari ci si limita a un omaggio, una citazione, poi vedi che questo riferimento al tuo passato, alla tua storia torna, e diventa allora qualcosa di più consistente, uno scavo interiore.

MDS: Siamo convinti che da una parte ogni persona ha diritto a essere raccontata, dall’altra che non abbiamo alcun diritto di raccontare la storia di nessun altro. Un paradosso. Quando facciamo documentari ci scontriamo sempre di più con il dilemma quasi etico di dover raccontare l’altro anche quando questo non si collega alla nostra esperienza familiare, ma parte invece dall’osservazione di quello che capita magari a pochi passi da casa. In questo modo per noi raccontare la storia di qualcuno che non conosciamo ma nel quale ci rispecchiamo vuol dire in qualche modo raccontare noi stessi. È una tensione continua tra ciò che vediamo e ciò che non vediamo, tra ciò che siamo e ciò che non siamo, ed è un po’ questo forse il nostro compito, quello che ci siamo promessi di fare senza dircelo: continuare a esplorare i confini tra noi e gli altri, il che vuol dire forse anche i confini tra la vita e la morte. C’interessa raccontare quello che sta su questo limite d’esistenza perché crediamo che sia lì il fermento della Storia, delle storie.

Una delle cose che mi colpisce è la specifica dimensione temporale dei vostri film che mi pare abbia molto a che fare con quello che stavi dicendo e che forse varrebbe la pena approfondire: i vostri, se ci si ferma alla sinossi, sono tutti film sull’attualità in un certo senso, in realtà nessuno lo è, e anzi al contrario sono film…
MDS: senza tempo.

Esatto. C’è questa specie di ricerca di un certo anacronismo.

MDS: Sì, bravo, grazie.
GDS: Molti si aspettano di andare a vedere un film che parla di un certo argomento, di un tema. Quello però non è un «argomento», è il mondo intorno ai personaggi. Il tema poi è un altro.

Mi piacerebbe capire meglio: questa specifica dimensione temporale sembra legata a questo movimento transgenrazionale che però non è vettorialmente diretto dal passato verso il futuro, ma è un su e giù che appunto sta fuori dal tempo perché non è un’evoluzione che mira verso il futuro delle magnifiche sorti e progressive, ma è uno sguardo astratto nel senso che è «estratto» dal flusso del tempo che scorre e in questo senso è interessante anche quello che dite della morte: si tratta in fondo dello «sguardo della morte», di uno che si ferma fuori dai fatti che continuano ad accadere.
MDS: Sì, fuori dai fatti. I fatti cosa sono? Sono, in modo superficiale, l’unione di quello che succede in un determinato luogo, in una determinata realtà in un determinato tempo. Ecco noi cerchiamo di andare al di là di questa realtà. Il tentativo è di raccontare qualcosa che sembra rientrare in questi confini, ma poi man mano che vai avanti nella visione del film in realtà è come se tu non andassi avanti ma andassi dentro. Anche a livello di montaggio per esempio, Spaccapietre è un modo per entrare, per spaccare la realtà spazio-temporale nella quale abbiamo voluto inserire la storia; spaccandola, cerchiamo di entrarci dentro. Un esempio di come abbiamo voluto rendere questo andare al di là del tempo e dello spazio: il montaggio ci fa entrare quasi sempre dentro scene già iniziate e ci fa uscire prima che l’azione sia finita. Quasi si trattasse di smussare, di scivolare dentro una situazione anche sul piano puramente visivo: in Sette opere avevamo all’inizio una luce nel buio e alla fine questa luce usciva sempre di più fino ad astrarre tutto; in Spaccapietre abbiamo al contrario una discesa sempre più profonda in quello che noi immaginiamo essere l’Ade di Orfeo. Per noi il film è un viaggio orfico, ha a che vedere con la vista, con la visione, però è anche un viaggio verso le profondità delle tenebre. Non può essere allora un viaggio normale, un viaggio su questa Terra. Secondo noi bisogna cercare di andare al di là del realismo, al di là della cronaca.

GDS: Volevo correggere un po’ il tiro. Secondo me il linguaggio del film non si mette fuori del tempo, non lo definirei «anacronistico», al contrario: Marc Augé in un suo saggio sulle rovine diceva che vedendo delle rovine di un passato, della stratificazione di tanti passati, nel momento presente quindi dell’attualità, si ha la visione non tanto di essere fuori del tempo, quanto piuttosto del tempo in senso assoluto; quindi del concatenarsi e del sovrapporsi dei tempi. Ecco forse questo film più che essere anacronistico è assoluto.

Voi che vi applicate così tanto al cinema di non fiction – non solo inteso come documentario – che cosa cercate o che cosa trovate nel cinema a soggetto, considerato anche il percorso difficile che ci si deve preparare a intraprendere per farlo?
GDS: Il cinema documentario, almeno per come l’abbiamo fatto noi fino a oggi, è nato praticamente sempre da incontri, da esperienze davvero vissute, fisicamente vissute. Il cinema di finzione è più frutto più di una rielaborazione della vita nel senso più ampio. Quindi forse nel cinema di finzione quel brivido, quell’adrenalina, quell’emozione che deriva non tanto da un racconto di qualcosa, quanto piuttosto da una riflessione, da una contemplazione…

Da un’astrazione?
GDS: Sì. Chiamiamola così. È un distillato, ecco. Il cinema di finzione è più un distillato che ha a che fare con un processo, che parte da un ingrediente, tanti ingredienti, che poi passano attraverso dei tubi che sono l’industria, le difficoltà, i tempi, gli attori, la sceneggiatura. Tutte queste cose sono i tubi che però poi ti permettono alla fine di avere quella goccia che ti fa sentire tutto quel profumo, quel sapore ma che ha un’alta gradazione alcolica.
MDS: La cosa interessante è che poi ognuno lo gusta in modo diverso. Mentre nel cinema documentario io e mio fratello ci troviamo con la camera in mano di fronte a una realtà e cerchiamo in qualche modo di catturarla, per semplificare.

GDS: O di scriverla in quel momento.
MDS: Sì, o di riscriverla, un po’ come prendere questi ingredienti base, questi grappoli e mangiarli sul momento. Nel cinema di finzione invece tutto questo processo di distillazione è sempre uguale a se stesso, però poi, alla fine, se assaggio io o Gianluca il prodotto finale ha un gusto diverso. Forse nel cinema documentario cerchiamo di unirci in uno sguardo, io e lui, e di cercare di agire insieme. Mentre nel cinema di finzione, in questo processo di realizzazione a quattro mani, è come se questo sguardo tornasse un po’ separato. Io la vedo così.

G: Io no. Non dimentichiamo che nel film a soggetto si tratta di lavoro collettivo, di scambio all’interno di una comunità sospesa nel tempo e nello spazio. Forse il cinema documentario è la creazione di una comunità con la realtà. Mentre invece nel cinema di finzione si tratta della creazione di una comunità o microcosmo assoluto, sciolto da ogni tipo di relazione, che in un certo senso si nutre anche di tutti i suoi sguardi e bagagli esistenziali, e quello che produce è sempre qualcosa di diverso da quello che avevi in mente. Ed è giusto che sia così.
MDS: Sono d’accordo con quello che ha detto mio fratello.