Palazzo Merulana a Roma ospita, fino al 13 marzo, una mostra che fa confluire l’immaginario di tre artisti diversi, le cui opere attraversano una produzione che sembra una freccia lanciata nella storia delle nostre inquietudini oniriche. Dialogano tra loro Luigi Boille, Lamberto Pignotti e Bruno Aller, facendosi ognuno latore di un modo di dire e di ragionare sul mondo che sembra parlare a parti diverse del nostro universo sensibile. Se Boille ci racconta l’inverso dell’astrazione geometrica facendo dell’assoluto cromatico l’universo in cui affiora la percezione come traccia incancellabile e anarchica, Aller irrigidisce l’orizzonte per dirci che dietro la struttura delle righe e dei semicerchi millimetricamente perfetti resta l’ineffabile sfumato dell’imprendibile.

IL PRIMO, con la sua ricerca di libertà nell’arte informale guarda alla superficie come il posto dell’affioro del profondo, inventa una sapienza di composizione che non lascia indietro il sogno («azzurro levigato» e «aurora velata» raccontano della molteplicità percettiva che è il nostro esistente). Aller sembra fare l’operazione inversa, irrobustendo la struttura del reale, geometrizzandola in quella ricerca dell’ordine che è affanno e sforzo costante, ma lasciandola sfumata come a rivelare le tracce dei pensieri che l’hanno costruita, a volte sono colori e altre piccole sbavature. Sempre sono processi che nascono dai cuori. Le sue opere riprendono il linguaggio espropriato dalla pop art per reinventarlo umanisticamente come nei titoli dei quadri-omaggi a sinfonie di Bach e Mahler, ritratti di poeti come Majakovskij. Sono sguardi magnifici quelli degli artisti, rimandano sempre a come siamo fatti, alle nostre parti scomposte, a come stiamo dentro questa società, con gli altri e con noi stessi. Il più esplosivo resta Lamberto Pignotti, classe ‘26, passaggi comunitari nel gruppo ’63 e nel gruppo ’70, intollerante alla settorializzazione dei linguaggi («come se Dante non avesse saputo dipingere dei quadri con le parole»). Viene da quel gruppo che attorno al «manifesto» di Enrico Prampoli (L’arte polimaterica) si interroga con una potenza senza età sul linguaggio, questa materia che ci forma di continuo, prima di essere e anche quando non ascoltiamo. Che struttura i pensieri e le azioni lasciandoci più automatici di quanto vorremmo. Sono bellissime le sue poesie visive, nell’atmosfera di perenne ricerca cui rimandano e nell’ironia che in questo artista continua a essere metodo del desiderio.

NON HA STASI Pignotti, si annoia alla ripetizione, ci dice alla presentazione della mostra. Ricorda di essere arrivato all’arte in un periodo in cui si diceva «l’arte è in crisi», la «poesia è in crisi», e lui rispondeva «evviva» perché la crisi era elemento in divenire, serviva quantomeno a evitare la strage della stasi. La sua ricerca è nutrita da ciò che vede e accade, le sue opere rovesciano l’iconoclastia dell’immagine commerciale e di quella istituzionale (espone un disegno di legge che è spray su tela, e viene da ridere), indica l’altrove con una freccia scolorita su un giornale ritagliato e ingiallito a dirci che uno spazio lo si può inventare là dove tutti vedono la fine di una funzione. Costruisce enigmi senza soluzioni, dichiara la fine di estetismo e decadentismo, chiede una proroga per la pace e il benessere. Scrive zero a pennarello sulla carta del giornale e ci regala la irriverente libertà dell’infanzia che forse torna e rimane: miracolo dell’arte.