«Il sole qui è davvero paradisiaco. Dopo quello che abbiamo visto a Parigi, si fa fatica a credere agli occhiali scuri. C’è un tempo stupendo (…) Gallina ti manda mille abbracci e ti invita a giocare alla spiaggia in terrazzo. Lascia da parte tutti i problemi e la pioggia e vieni». Così, nell’estate del 1929, Marcel Duchamp scriveva a Constantin Brancusi, chiamando Gallina quella che già da qualche anno era la sua amante, Mary Reynolds.

Quando la foto li ritrae, Brancusi li ha dunque raggiunti: sono a Villefranche-sur-Mer, Costa Azzurra, sul terrazzo della casa che la ricca vedova americana aveva affittato e dove avrebbero passato altre estati a seguire. Gli occhiali scuri Duchamp li ha tolti per mettersi in posa: guarda in macchina, come fa anche Brancusi, magnifico cappello in testa e sigaretta in bocca. Mary invece ha gli occhi indirizzati a loro, e così presenta il suo marcato profilo, segnato da quel naso perfetto che Peggy Guggenheim le invidiava: assiste, si sente spettatrice del protagonismo dei due che ammira. Di Marcel è innamorata fin dai primi passaggi di una relazione complicata, se non burrascosa, ma che proprio quell’estate esce dalla clandestinità in cui Marcel aveva voluto tenerla e comincia a stabilizzarsi; ma Reynolds nella foto sembra guardare piuttosto Brancusi, con aria divertita e compiaciuta – è la padrona di casa.

Un incontro non scontato
Pur nella loro casualità, gli atteggiamenti dei tre li definiscono, in realtà, assai bene: Brancusi, sicuro e distaccato, è consapevole del suo valore nel mondo dell’arte, e si concede al ritratto; Duchamp esibisce uno sguardo fiero: è elegante con quella canottiera a scollatura alta; Mary sembra timida, ma comunica consapevolezza, autonoma, e fiducia nonostante la sofferenza subita nei travagli con Marcel.

La foto è semplice, in puro stile souvenir, buona per l’album dei ricordi: dà per implicita la fama raggiunta dai tre, e al di là del suo carattere di istantanea fotografica diverrà un pezzo di storia. Lo diventerà perché fissa l’incontro di tre personalità così diverse che non è automatico pensarle insieme: di storico c’è dunque il loro incontro che sintetizza, registra e rende visibile l’intreccio di ciò che ciascuno di loro rappresenta. Chi avrebbe potuto immaginare che Brancusi e Duchamp, due personalità così lontane, sarebbero diventati amici? Nel 1929 Brancusi è un artista riconosciuto, ha già compiuto la parte essenziale del suo percorso di pulizia delle forme, espone negli Stati Uniti, dove conta collezionisti fedeli. L’anno precedente ha vinto una causa nientemeno che contro il governo statunitense, che ha dovuto concedere a l’Uccello nello spazio lo statuto di opera d’arte, mentre i doganieri lo avevano scambiato per un utensile industriale.
Con Duchamp si conoscono fin dal 1912, è stato Marcel ad avere contribuito alla sua fama negli Stati Uniti: lo stima, ne ammira la capacità di starsene ai margini dei giochi del mondo dell’arte, che da sempre lo esasperano. Pochi mesi prima, in una lettera di sfogo indirizzata a Katherine Dreier, una ricca e intraprendente collezionista americana, Duchamp scriveva: «Più vivo in mezzo agli artisti, più mi convinco che sono degli impostori da quando iniziano ad avere un briciolo di successo». Negli Stati Uniti ha curato già una sua mostra e un’altra la allestirà qualche anno dopo.

Della stima di Brancusi per Duchamp non sappiamo invece niente. Difficile credere che lo scultore rumeno, maniacale nel lavoro, artigiano al cento per cento, un uomo che era solito riempire di carezze le sue opere, capisse un artista che sembrava produrre solo all’occorrenza, un francese che doveva apparirgli snob e sempre distratto da altro. Se Duchamp stimava Brancusi era proprio in quanto artista non «retinico», capace di fare retrocedere la percezione della scultura alla «materia grigia» piuttosto che allo stadio della retina; lui, invece, era mondano e inafferrabile, stava dietro a quanto gli importava senza ottemperare ai riti delle istituzioni artistiche. L’intrico, insomma, era dei più curiosi.

Duchamp si era affermato come maestro dello scandalo, prima con il Nudo che scende le scale, rifiutato agli Indipendenti di Parigi nel 1912 e poi trionfatore all’Armory Show negli Stati Uniti l’anno seguente, e via via con le sue incomprensibili «macchine», i fili lasciati cadere (i Rammendi-tipo, 1913-14), dipinti su vetro e i readymade, in realtà non costruiti da lui. Anche Brancusi, tuttavia, aveva destato non poco sconcerto: Principessa X era un busto femminile o un pene? Agli Indipendenti del 1920 si era preferito non mettere il ministro di fronte al dubbio. E d’altro canto, sesso a parte, un uovo di pietra levigata poteva essere considerato una scultura? (pare che in un’occasione lo avesse perfino esposto dentro un sacco, da palpare invece che da guardare: Scultura per ciechi, 1925). E un uccello ridotto a una pura forma lanceolata?

La lontananza dei due artisti favoriva tra loro la mancanza di sospetti e di spirito di competizione, ciò che li avvicinava era piuttosto la consapevolezza di sé e un certo orgoglio, forse persino deducibili dall’atteggiamento in cui vengono colti nella fotografia, che li ritrae con lo sguardo in macchina, in vacanza dal mondo dell’arte. È una sorta di identità della contingenza ciò che resta fissato in questa immagine, a dispetto di categorie quali l’astrattismo, il dadaismo, e così via, che restano sullo sfondo mentre emergono altre analogie, altre differenze, altri percorsi di vita, apparentemente accaduti «per caso».

La fata benefica
Uno di questi percorsi porta a Mary Reynolds, che rappresenta il collezionismo, il mecenatismo, l’emulazione, l’arte «minore»: proprio a partire da quell’anno, il 1929, avrebbe cominciato a dedicarsi alla rilegatura, realizzando, anche con la collaborazione di Duchamp, diverse copertine di edizioni d’arte. Mary Reynolds era diventata vedova dopo meno di tre anni di matrimonio, poi aveva incontrato Duchamp, il cui matrimonio era durato sette mesi, nel 1927, e ne aveva patito il desiderio d’indipendenza. Ma la loro relazione sarebbe durata oltre vent’anni. «Era una specie di fata benefica, pronta a ricevere tutti quelli che approdavano da lei, e tutti abusavano un poco della sua generosità», disse di lei Peggy Guggenheim. Nella foto il suo sguardo è su Brancusi e tradisce abbandono, capacità di immettersi nel rapporto tra i due senza ombra di rivendicazione: forse è proprio la sua presenza a rendere questa foto ricercata e speciale.