Presentato lo scorso autunno in un paio di festival dell’estremo oriente, è in questi giorni nelle sale dell’arcipelago Soup and Ideology, l’ultimo documentario di Yang Yong-hi, giornalista e regista nata a Osaka, in Giappone, da genitori coreani. Il film rappresenta l’ideale terzo capitolo di una trilogia che cominciò nel 2005 con Dear Pyongyang, in cui la regista visita assieme ai suoi genitori i suoi tre fratelli rimpatriati nella Corea del Nord durante gli anni settanta, e che continuò nel 2009 con Sona, the Other Myself. Qui Yang mette insieme i video dei suoi incontri con la giovane cugina girati a Pyongyang durante un periodo di più di 15 anni.
Con Soup and Ideology la regista continua, e forse pone termine, vedremo più avanti il perché, il percorso di esplorazione, spesso dolorosa, delle sue origini e di come la storia con la «S» maiuscola si sia intersecata e abbia distrutto, di fatto, la sua famiglia. Come scritto, i suoi fratelli infatti furono tutti e tre mandati in Corea del Nord dal padre, seguendo il programma di rimpatrio dei cittadini nordcoreani dal Giappone alla madre patria, in atto dal 1959 al 1984, paese che veniva all’epoca venduto come il paradiso in terra.

IL RAPPORTO conflittuale verso il paese d’origine dei suoi genitori, ma anche verso il Giappone dove Yang è nata e cresciuta, ma spesso considerata «diversa», ritorna anche in Soup and Ideology, ma qui il conflitto con il padre, scomparso alcuni anni fa, viene sostituito dal rapporto con sua madre, Kang Jung-hee. In Soup and Ideology scopriamo come l’evento storico che ha influito sulle sorti dei suoi genitori e ne ha formato il carattere è il massacro avvenuto nell’isola di Jeju a partire dal 3 aprile 1948, quando più di 30 mila persone, simpatizzanti comunisti, furono uccise dall’esercito sudcoreano. La madre, originaria della Corea del Sud, era nell’isola e assistette, diciottenne, al massacro per giorni e giorni.
All’inizio del film, siamo nel 2015, vediamo la madre che dopo un’operazione comincia a ricordare gli orrori visti a Jeju, dove perse il suo fidanzato dell’epoca e membri della sua famiglia. Nel corso del documentario scopriamo inoltre, assieme alla regista, che la genitrice soffre di demenza senile e che sta a poco a poco perdendo tutti i suoi ricordi. A questo punto il film si trasforma in qualcosa di diverso, non più diario in cui la videocamera funziona come un elemento con cui porre domande e comunicare con la madre, ma un modo per testimoniare il suo rapporto con la donna ed anche un atto di autoriflessione.

SE NELLA PRIMA parte è lei a filmare la madre, nella seconda, quando le condizioni si aggravano, Yang entra per così dire nell’inquadratura e a filmare è il suo partner. Qui traspaiono chiaramente le sue emozioni, soprattutto quando visita l’isola con la madre per l’anniversario del massacro. Lì la regista capisce che l’affiliazione e l’attrazione della donna per la Corea del Nord, per la quale la regista non l’ha mai perdonata del tutto, è stata causata anche dalle atrocità commesse dall’esercito sudcoreano che la madre vide e mai dimenticò. Questo potrebbe essere l’ultimo capitolo della serie di documentari che Yang ha dedicato al paese dei suoi genitori e alla sua famiglia, infatti la madre è deceduta lo scorso gennaio e alla regista è vietato entrare in Corea del Nord.
Spesso nel documentario vediamo le due donne cucinare, mangiare e discorrere insieme, il titolo del film si riferisce alla convinzione della regista, potrebbero sembrare frasi fatte ma vista la sua esperienza personale hanno decisamente un significato più profondo e sentito, che le persone al di là del loro credo e del loro modo di pensare, dovrebbero convivere e mangiare insieme senza uccidersi l’un l’altro per motivi ideologici o di appartenenza a questo o quel paese.

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