Quando Ettore Sottsass giunse «all’inizio della sua discesa», rivolgendosi a sua moglie nel ricordarle com’era bella la sua vita grazie a lei aggiunse che forse il suo essere «un vero taoista» derivava dall’avere capito «che intorno c’è il vuoto, che la vita non ha alcun senso», quindi, poiché «è difficile stare sempre con il vuoto, perché fa paura, allora bisogna riempirlo». Questa frase, estratta dalla toccante autobiografia di Barbara Radice appena pubblicata con il titolo Perché morte non ci separi (Electa), è uno degli elementi utili per la visita a Ettore Sottsass: i Vetri, la mostra, a cura di Luca Massimo Barbero, promossa da «Le Stanze del Vetro» alla Fondazione Cini di Venezia (fino al 30 luglio). Anche la lettura dell’autobiografia di Sottsass, Scritto di notte (Adelphi, 2010), è un buon viatico per comprendere ciò che subito all’inizio del percorso, e poi di seguito nelle altre sale, si configura come un trionfo di colori, forme e figure di vasi, calici, piatti, ma anche di laboriose sculture, oggetti in alcuni casi polimaterici perché ideati accordando al vetro metalli e marmi. Insomma, un esuberante spettacolo visivo, ma nulla di edonistico, poiché ognuno degli oggetti unisce ricerca e rigore all’invenzione e alla fantasia. D’altra parte la sperimentazione in Sottsass fu sempre elevatissima e nel vetro la si coglie, ad esempio, nel fissaggio della pasta vitrea con colle speciali e non «a caldo»: un’eresia per i maestri muranesi.
Già al suo esordio nel 1947 con una sfera in vetro soffiato con la superficie in «disegno scozzese» è evidente la sua passione di quegli anni per le «superfici rigate», pensate non solo per l’architettura (Stand per la Cogne Acciai Speciali) ma anche per il design nel tentativo di liberarsi «della geometria semplice delle architetture cosiddette funzionali». Si delinea già nel dopoguerra la presa di distanza dai suoi «unici maestri»: Mies, Gropius, Neutra, Le Corbusier, Breuer. Scriverà: «già mi annoiavano a morte i retori del razionalismo, specialmente i tedeschi e gli svizzeri, quelli che pensano che per fare l’architettura sia meglio avere un cervello da ingegnere, anzi da ingegnere primitivo». Nella metà degli anni settanta, di fianco al rigore del nuovo paesaggio ufficio (Olivetti, Synthesis 45) e domestico (Alessi, Servizio 5070), l’«indifferenza disciplinare» di Sottsass trova la sua migliore espressione, oltreché nella ceramica, nell’arte vetraria con la serie di vasi ideati per Vistosi. Con l’intento di «sperimentare i limiti di tensione e di intensità cromatica del vetro» crea dieci pezzi numerati dalla composizione volumetrica elementare ma dai colori brillanti e dalla carica sensoriale fortissima.
Tolta la parentesi «industriale» per Fontana Arte (1980), durante la quale si misura per la prima volta con il cristallo (la seconda sarà dieci anni dopo per Swarovski), è nelle collezioni di Memphis che il vetro prende forme insolite per sovrapposizione, aggiunte e incastri di pezzi vitrei, a volte di diverso materiale (alluminio smaltato, perspex, ecc.) e tinte «assolutamente diverse da qualsiasi gamma muranese», come ricorda Marino Barovier in catalogo (Skira). Il desiderio di accostare differenti materiali ha origine agli inizi degli anni cinquanta, quando avvolge un vaso in plexiglas con un tondino di ottone. Da quei primi contenitori, passando alle ceramiche per arrivare al vetro, gli «esercizi» di Sottsass non saranno, come scrisse «Domus» 1953, solo la sua «ginnastica per conoscere lo spazio». Piuttosto, nelle parole di Barbara Radice, l’occasione per «consegnare agli oggetti una funzione terapeutica che aiutasse la gente a vivere, sollecitando con la loro presenza la percezione che ognuno può avere della propria esistenza».
Accolto nel 1985 come un esperto «designer del vetro» dalla Glass Society di New Orleans, dieci anni dopo disegna per la Galleria Mourmans la serie Big and small works: vetri soffiati presso Venini e poggiati su basamenti in marmo o acciaio perché solo dando «peso alle cose» gli oggetti sono considerati e rispettati. L’accostamento vetro veneziano e marmo si affina con Esercizi (1998) per la Galleria Marina Barovier. Ai solidi cilindri bipartiti della galleria veneziana fa da contrappunto la serie dei Capricci: ironico montaggio di eleganti pezzi dei vetrai muranesi della Cenedese in precario equilibrio su sottili aste in acciaio con basi tonde.
Per il vetro Sottsass sembra nutrire un’irresistibile attrazione che lo condurrà, fino alla sua ultima creazione per Mourmans dal titolo New works del 2006, a vivere due speciali esperienze. La prima a Marsiglia presso il C.I.R.V.A. (Centre International du Verre et Arts Plastique), la seconda a Doha dove per lo sceicco Saoud bin Alì Al-Thani crea ventidue sculture in vetro per l’ingresso della villa progettata da Arata Isozaki. Il fulcro della mostra risiede in questo prestito eccezionale che bene chiarisce le qualità e finalità degli oggetti-scultura dell’architetto-designer. Al termine della sua lunga carriera, che si concluderà con la sua morte nel 2007, Sottsass riesce a mettere a segno una serie di oggetti di straordinaria bellezza nei quali «luce e colore – come scriverà lui stesso – si incastrano e si sovrappongono e si ‘aggiungono’ come entità nuova», ma soprattutto come «realtà essenziale e determinante dell’ambiente». Sottsass comprese meglio di ogni altro che l’ornamento è qualcosa di inseparabile dal concetto di stile e la filosofia che lo sottende si ripropone in modo nuovo nel mondo contemporaneo. Dalla simbologia della religione induista alle bambole tribali indiane Kachina (spunti per i vetri al C.I.R.V.A.), tutto concorre in Sottsass a una produzione varia e infinita, immaginaria e ritmica, ma soprattutto comunicativa e inclusiva, per costruire una «possibile utopia figurativa o una metafora della vita».