In un saggio apparso in Italia da Einaudi, Il filosofo. Una storia in sei figure, lo studioso di storia della scienza Justin E.H. Smith individua sei profili in grado di rappresentare i modi diversi in cui ha preso forma nei secoli la pratica filosofica: il curioso, il saggio, il polemico, l’asceta, il mandarino e il cortigiano. Leggendo la raccolta di scritti di Ettore Sottsass Molto difficile da dire (Adelphi «Piccola Biblioteca», a cura di Matteo Codignola, pp. 297, € 15,00) – viene da ripensare a quei profili tracciati da Smith, anche se non si ha tra le mani un libro di filosofia. O almeno non in apparenza.
Sottsass è una figura che ha bisogno di poche presentazioni per i conoscitori di architettura e di design. Basti qui ricordare, tra le sue moltissime imprese, la lunga collaborazione con la Olivetti (per cui disegnò macchine da scrivere e il primo calcolatore elettronico italiano) e la fondazione del gruppo Memphis, uno dei collettivi di design di maggior rilievo nella scena artistica degli anni ottanta. Ma è anche noto ai più in quanto marito di Fernanda Pivano, con la quale condivise viaggi (raccontati dalla Pivano in Viaggi ad alta voce, Bompiani) e passioni culturali, in particolare per le avanguardie degli anni sessanta e settanta.
Dal 2009 Adelphi si sta adoperando per dare il giusto risalto a un aspetto meno celebrato del genio di Sottsass, quello della scrittura: in dieci anni, oltre al volume uscito questa primavera, che comprende testi del periodo 1967-’75, sono apparsi il libretto di fotografie con didascalia Foto dal finestrino (2009), l’autobiografia Scritto di notte (2010) e la raccolta di scritti degli anni 1940-’56 Per qualcuno può essere lo spazio (2017). Questo progetto editoriale ha la finalità di mostrare come la scrittura non fosse una semplice attività collaterale nel contesto dell’operosità leonardesca di Sottsass, ma una forma pura e originale del suo fare. Pertanto, approcciandosi a questo libro – così come agli altri – conviene al lettore fare tabula rasa delle nozioni di cui è già in possesso a proposito dell’autore, e cercare di conoscerlo a poco a poco attraverso le sue parole. E non si deve in ogni caso cadere nell’equivoco di allontanarsene se non si è conoscitori o appassionati di architettura e design, perché anche se pensati in buona parte da Sottsass come «note al testo implicito» della sua attività professionale, questi scritti hanno lo straordinario potere di aprirsi a corolla e di andare più lontano delle occasioni da cui nascono.
Ma ecco che viene qui utile tornare ai profili filosofici tracciati da Justin Smith ed evocati sopra. A mano a mano che ci si addentra nei testi – deliziati e sorpresi come raramente capita di fronte a quelle che vengono pubblicizzate come «riscoperte» editoriali – abbiamo l’impressione che quel «molto difficile da dire» impresso sulla copertina indichi a tutti gli effetti uno sforzo filosofico di Sottsass, un tentativo di arrivare all’essenza delle cose, al punto in cui il linguaggio sembra girare attorno ai suoi limiti. Ma qui «sforzo» non è forse il termine giusto, perché le pagine traboccano di levità e ironia. Sottsass è filosofo per lo meno secondo tre dei profili tracciati da Smith: il curioso, il saggio e il polemico. Curioso perché mai sprezzante dei «fatti particolari» (per dirla con Leibniz) a vantaggio degli universali; saggio perché capace di vestire la maschera socratica dell’estraneo («lo svizzero miserabile, fuori dal gioco dei sapienti»; l’africano proveniente da un «paese del Kilimangiaro») per afferrare con più sagacia le dinamiche del «nostro» modo di vivere e di abitare il mondo; polemico perché moralista nel senso nobile del termine, critico dei costumi dominanti, intellettuale davvero pubblico fuori e al di sopra di ogni engagement o appartenenza politica. E se ancora il profilo dell’asceta rappresenta – al di là della concezione più banale di tale figura – un’esigenza di libertà e di comprensione dell’altro fortemente presenti nelle sue pagine, l’architetto originario di Innsbruck è filosofo tanto più perché avversario dei mandarini e dei cortigiani del suo (e di ogni) tempo. Buona parte della sua parabola va in direzione di uno smarcamento da qualsiasi chiesa o corte, da quei feroci rituali del potere (politico, accademico o militare) che comprimono e opprimono la spontaneità della vita.
Decisivo è in questo senso il saggio del 1974 Haiku e suspense, in cui Sottsass si interroga sull’interesse, nato in gioventù, per le stampe giapponesi Ukiyo-e, e seguendo tale traccia lambisce il cuore del suo operare, non soltanto come architetto e designer. «Mi pareva – scrive – che gli Ukiyo-e mi lasciassero vedere il disegno di un modo di vivere accettabile – popolare – costruito contro (o forse malgrado) il modo inaccettabile degli eventi che si chiamano “storici”». Gli Ukiyo-e dunque, così come gli Haiku, diventano i simboli di una vita e di un fare tesi a preparare quella «penombra silenziosa in cui sedersi e costruire un po’ di consapevolezza di sé e forse anche della società intorno». Una condizione in cui cogliere il «suspense cosmico», «la vita come evento colorato, fulmineo, senza ragioni, senza spiegazioni, senza strutture, senza programmi, senza passato, senza futuro, senza condanna e senza premio».
Ma poi, continua Sottsass, siamo condannati a tornare «tutti a casa a leggere il giornale, a sentire la radio, ad ascoltare il telefono e queste cose che invece sembrano tutte senza suspense o forse il suspense vogliono eliminarlo». Chissà cos’avrebbe detto, questo filosofo sotto le mentite spoglie dell’architetto, dell’africano o dello «svizzero miserabile», se ci avesse visti oggi assediati dai nostri mille schermi.